Andrea Giardina, Il messaggero 11/1/2009, 11 gennaio 2009
AUGUSTO LA FORZA DELLA POLITICA
Nel 1937 Mussolini si trovò di fronte a una straordinaria coincidenza e la sfruttò efficacemente. L’Etiopia era stata appena conquistata, facendo rinascere l’impero romano sotto sembianze fasciste. Al culto fascista della romanità, ideato e diffuso da molti anni, era mancato un elemento decisivo, senza il quale tutto sembrava doversi arenare sul piano delle velleità e delle enunciazioni: era mancata una grande prova di organizzazione e di potenza bellica. Ora quella prova c’era stata e la rivoluzione antropologica voluta dal duce sembrava aver effettivamente trasformato gli italiani in un popolo disciplinato e guerriero.
Nello stesso anno ricorreva il bimillenario della nascita di Augusto, avvenuta il 23 settembre del 63 a.C. La simmetria fra i due eventi era suggestiva e il regime ne approfittò per rafforzare la sua immagine all’estero e favorire la crescita del consenso interno. La Mostra augustea della romanità fu un evento eccezionale, in cui un messaggio che attualizzava il passato a fini politici si mescolava a brillanti esperimenti di comunicazione pedagogica.
Politici e professori fecero a gara nel ricercare analogie fra Augusto e Mussolini. Entrambi – si ripeteva – avevano pacificato l’Italia risolvendo una grave crisi sociale e politica, restituito dignità al senato, favorito la crescita demografica, difeso la morale e la famiglia, rilanciato l’agricoltura e i suoi valori, trasformato la milizia di parte in milizia nazionale, promosso grandiose imprese urbanistiche e architettoniche.
In una simile ossessione per le simmetrie c’era però qualcosa che non funzionava. Per comprendere questo disagio è indispensabile considerare il cinema. Sempre in quel fatidico anno 1937, uscì un film colossale, dal quale il regime si aspettava molto per propagandare l’avvenuta rinascita dell’impero romano. Ci aspetteremmo che il protagonista di questa pellicola fosse lui, l’uomo del bimillenario, Augusto il fondatore dell’impero. E invece fu Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale.
Nulla meglio di un simile episodio mostra quanto fosse difficile attualizzare la figura di Augusto e renderla popolare, per un regime che avesse volontà di potenza. Il principe, infatti, non fu affatto un grande conquistatore e molte delle sue vittorie si dovettero alla bravura e all’esperienza di altri. La sua epoca fu inoltre macchiata da una delle più gravi catastrofi della storia militare romana, la disfatta delle legioni di Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo («Ah, Varo, rendimi le mie legioni...»).
A fare di Augusto un personaggio poco cinematografico (e poco letterario) concorreva, insieme con lo scarno curriculum bellico, la mancanza di un attributo fondamentale: quel fascino demoniaco del potere – sesso, violenza, bizzarrie, volontà parossistica di dominio – che rende irresistibili personaggi come Nerone o Commodo. Un certo amalgama di cristianesimo e di romanticismo fa inoltre sì che i grandi perdenti, gli eroi sfortunati, ci appaiano più ammalianti dei grandi vincenti. C’è un indubbio fascino nell’improvvisa morte di Alessandro Magno, cancellato all’età di 33 anni da una febbre improvvisa, quando il mondo era sempre pronto ad accogliere sue nuove imprese, o nella incredibile morte di Giulio Cesare, trafitto dai pugnali in una congiura di cui centinaia di persone a Roma erano al corrente ma che egli ignorava. I vincitori che muoiono vecchi nel proprio letto, come Augusto, scomparso a 77 anni dopo oltre quaranta di regno, non hanno la stessa capacità di seduzione.
Eppure, anche la storia di Augusto può risultare avvincente, se ne cogliamo il fascino che soltanto il suo genio politico può rivelare. Questo talento fuori del comune, che trova pochi confronti nella storia universale, si espresse soprattutto in due aspetti: la capacità di scegliere i tempi dell’azione politica, ora accelerandola ora rallentandola secondo le circostanze, l’abilità di lavorare sulle parole, per disattivarne le insidie e potenziarne la forza. In ambedue le cose, Augusto fu un autentico maestro.
In una società la cui cultura politica – diversamente da quella moderna, che ha l’ossessione opposta - era intrisa dalla diffidenza nei confronti delle res novae (le «cose nuove») e temeva i cambiamenti, Augusto riuscì nel miracolo di usare parole rassicuranti e persuasive, in quanto antiche, per far accettare una profonda trasformazione istituzionale. Erano parole che designavano i tradizionali poteri repubblicani, che egli diede l’impressione di far rivivere per garantire la pace civile e rendere sempre più prospero il mondo romano.
Quanto ai tempi della sua azione politica, essi si estero nell’arco di vari decenni, passo dopo passo, con cautela e nella costante ostentazione del massimo rispetto per il senato e per il popolo. Questo sapiente uso delle fasi e dei momenti ideali per le trasformazioni esprime l’essenza del suo stile di governo. A saperne apprezzare il valore e l’estetica, questo stile può rivelare addirittura un alto grado di drammaticità: immaginiamo quanta energia e quanta tensione abbia richiesto quell’azione estenuata a chi era già, nei fatti, il padrone del mondo.