Federico Fubini, Il corriere della sera 11/1/2009, 11 gennaio 2009
AZIENDE IN FUGA DA CINA E INDIA
un fermo immagine di cinque anni fa, eppure sembra un secolo: Yoshiyuki Tanakura, presidente di Fujitsu, taglia cerimonioso il nastro del nuovo centro di sviluppo in offshoring di Satyam Computer Services a Bangalore. Da quel giorno, il colosso informatico indiano guidato da Ramalinga Rajiu avrebbe assicurato ai giapponesi servizi via computer a costi sulla carta imbattibili.
Ottimismo e attivismo dei manager, miriadi di ingegneri sfornati dagli istituti tecnici indiani, remunerazioni capaci di garantire risparmi fra l’80 e il 90%. Gli argomenti di Satyam (in sanscrito: «Verità») avrebbero presto attratto gli altri giapponesi di Nissan e Sony, gli europei di Nestlé, gli americani di Caterpillar e General Electric: la mappa dell’aristocrazia industriale a caccia di forniture a basso costo. Thomas Friedman allora stava scrivendo «Il mondo è piatto», manifesto di un’era in cui qualunque angolo del globo pareva vicino e tutti potevano esportare posti di lavoro, smontare e delocalizzare gli impianti, arricchirsi e distribuire ricchezza. Ma andate avanti veloce e quella stessa pellicola parrà oggi irriconoscibile. L’altro giorno la grande crisi ha fatto emergere l’altra «verità» di Satyam. Aveva nascosto debiti, inventato profitti, gonfiato la cassa per un miliardo. L’azienda è sull’orlo del crac, Nestlé venerdì ha fatto sapere che cerca «alternative» e il mondo di Friedman sembra di colpo meno «piatto», più disseminato di mine. E da Silicon Valley a Francoforte, molti pettinano in queste ore lo stesso dubbio: è saggio affidare contabilità, servizi bancari, diagnosi mediche e altre funzioni vitali delle nostre economie a uomini di cui sappiamo pochissimo?
Vero, da Enron a Parmalat al caso Madoff, gli scandali non sono un’esclusiva delle potenze emergenti. L’arte di falsificare i bilanci è solo l’ultimo dei segreti che queste ultime hanno carpito all’Occidente. Ma Vats Srivatsan, indiano e partner dell’ufficio KcKinsey di Silicon Valley, trova che gli choc finanziari in serie e la recessione globale rimettano in movimento gli equilibri alla base delle delocalizzazioni degli anni passati. «Questa crisi obbliga le imprese a valutare molto meglio i rischi finanziari e operativi lungo tutta la catena delle forniture – osserva Srivatsan ”. Quando hai a che fare con un altro Paese, c’è sempre un elemento di incertezza. E una fase così lo mette a nudo più bruscamente».
Assieme a due colleghi di McKinsey a Silicon Valley, Ajay Goel e Nazgol Moussavi, Srivatsan in uno studio di pochi mesi fa si è chiesto in modo anche più radicale: « tempo di ripensare l’offshoring?».
Pallottoliere alla mano, i tre notano che la convenienza di trasferire posti di lavoro in Cina o in India non è più scontata come prima. Gli sbalzi del dollaro, del petrolio e l’aumento dei salari in Asia costringono i manager a rifare i conti, spiega Srivatsan. «Un operaio in catena di montaggio in Cina guadagnava in media 1.740 dollari l’anno nel 2003 ma oggi ne prende 4.140», si legge nello studio dei tre uomini McKinsey. Le catene di produzione potrebbero quindi almeno cominciare ad accorciarsi e diventare regionali, non più globali. Non più dal Nord-Est italiano o dal Mid-West americano al Guandong: la Romania o il Messico bastano. «Nel 2003 gli operai messicani guadagnavano più del doppio dei cinesi – calcola McKinsey – oggi prendono solo il 15% in più». La lezione in fondo è che il tempo non si è fermato a Marrakesh. Lì nel ”94 fu firmato l’atto di nascita del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio oggi oggetto delle ire di molti. Ma la vittoria dei colletti blu cinesi o dei tecnici indiani non è la fine della storia. «Gli altri Paesi hanno reagito» sostiene Ervino Riccobon, direttore del settore auto per McKinsey nell’area del Mediterraneo. Da Siemens a Volkswagen, in Germania i sindacati hanno rinegoziato parametri fondamentali dei contratti per aumentare la produttività e evitare la fuga delle imprese. In Europa centro-orientale incentivi fiscali sono stati disegnati per intercettare investimenti
I tempi
Il beneficio della scelta asiatica arriva dopo cinque anni e non più dopo due Per questo molti manager rinunciano. Come quelli di Bosch e Electrolux
altrimenti diretti in Cina. In Messico gli operai del settore auto sono arrivati a ridursi la paga mentre in Cina saliva del 19% l’anno. «Non so se sia stato giusto – commenta Riccobon – ma così hanno evitato le chiusure».
Nel frattempo, la crisi ha seminato Le banche
La stretta del credito rende più costoso creare un impianto lontano dalla madre patria. E in Paesi come la Germania la produttività è aumentata
altre mine sull’autostrada dell’offshoring. La stretta al credito rende più costoso creare un impianto lontano dalla madre patria. E le montagne russe del prezzo del petrolio confondono ogni stima sui costi della logistica: secondo Cibs World Market, con un barile a 20 dollari il costo del trasporto di un container dalla Cina era un «dazio» del 3%, che poi però si è più che quintuplicato e può tornare a farlo molto in fretta. Ma soprattutto, nota Riccobon, la stessa Cina ha dimostrato di non essere un contenitore inesauribile di fabbriche. E non tanto perché a novembre il suo export è caduto del 2,2% per la prima volta in sette anni. Piuttosto, nella Repubblica popolare è ormai arduo trovare manager, quadri, persone capaci di confrontarsi con una casa- madre a 20 mila chilometri di distanza. Il risultato netto è che il beneficio di una fuga in Asia arriva magari dopo cinque anni, non più dopo due. Sempre a caccia del loro prossimo bonus, molti manager rinunciano. Gruppi europei come Bosch o Electrolux hanno scelto di cercare efficienza in patria piuttosto che i bassi costi in Asia.
Il mondo dopo la crisi sarà dunque meno «piatto» e globale? Thomas Friedman ha già scritto il suo «sequel »: «Caldo, piatto e affollato». Vats Srivatsan pensa che la globalizzazione non farà un passo indietro, ma entrerà in una fase nuova: «I Paesi emergenti continueranno a sviluppare il loro talento e a integrarsi nel sistema – dice ”. Ma la globalizzazione non sarà più fine a se stessa, dovremo essere tutti più attenti agli oneri nascosti».
Viste le trappole nei territori lontani, Riccobon prevede che non saranno più vane neppure le ricette antiche della competitività in patria: tasse basse, istruzione, efficienza in azienda e in burocrazia. Sono loro i dazi imbattibili anche per la prossima Satyam.