???, La Stampa 12/1/2009, 12 gennaio 2009
Chi è che osa, alla vigilia del Giubileo universale che insedierà Obama alla Casa Bianca, scegliere un incipit così irridente? «Allora, compagni
Chi è che osa, alla vigilia del Giubileo universale che insedierà Obama alla Casa Bianca, scegliere un incipit così irridente? «Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all’audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato /. Di nuovo, ”siamo tutti americani”. E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare. Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo». I taglienti giudizi sono di Mario Tronti. Le vecchie pantere non dimenticano mai come tirar fuori le unghie. Nel pieno di una nuova stagione celebrativa della sinistra mondiale (e italiana in particolare) per l’elezione di Obama, Tronti prova a bucare, come spesso ha fatto nella sua vita, il palloncino di generico entusiasmo dentro cui la sinistra periodicamente affonda, come un bevitore quando rompe la forzata astinenza. In questo caso il vino inebriante è il presidente Obama, la cui vittoria, caricata di simbolismo e speranze, è stata accolta quasi come una ricompensa emotiva delle sconfitte italiane. Con il rischio che ricompensa, simbolismi e speranze siano solo un processo di rimozione della propria realtà. Dalla critica all’entusiasmo nasce un libro, in uscita da Ediesse, dal titolo Passaggio Obama, con un preciso sottotitolo: Una discussione al Crs provocata da Mario Tronti. Il volume è infatti interno a un gruppo - quello, molto intellettuale, del Centro di Riforma dello Stato, dove sono nati molti personaggi politici di oggi - fondato da Terracini, poi preso in mano da Pietro Ingrao, e di cui dal 2004 è presidente proprio Tronti. Ma, persino in questo gruppo, l’entusiasmo per Obama è forte. E in molti rispondono alla provocazione di Tronti, come Rita Di Leo, Ida Dominijanni, Stefano Rizzo. Comparati agli encomi che circondano il nuovo Presidente Usa, le parole di Tronti sono quasi brutali: «Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono ”rinati”, come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell’economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. / Il cambio è niente altro che un cambio di leadership, nel tentativo di riacchiappare un’egemonia che scappa. E siccome si tratta di un’egemonia-mondo, ci vuole un global leader». Sentite poi quali sono, secondo Tronti, le caratteristiche di questo vincente: «Il giovanotto (!) è sveglio, è pragmatico, è cinico, è pigliatutto, ha perfino un pizzico di carisma, è intelligente perché si è circondato di persone mediamente intelligenti. Una machiavelliana presa di potere, perfetta. In questo, chapeau! agli Stati Uniti d’America, gli unici in grado di far ancora tesoro del detto, mitteleuropeo: là dove c’è il massimo pericolo, lì c’è ciò che salva». Insomma, il modo corretto di trattare la cosa è, secondo l’autore, il seguente: «Obama è adesso la figura nuova che assume il nostro avversario». Il primo pericolo riguarda la trasformazione di cui il Presidente eletto è il più perfetto figlio: «La personalizzazione della politica, che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana ”personalità autoritaria”. / E un’altra cosa, meno astratta, più empirica. Da dove sono uscite le enormi risorse finanziarie di Obama, che hanno fatto apparire indigente nientemeno che la famiglia Clinton? In che percentuale sono state esse il frutto della mobilitazione dei neri, delle donne, dei giovani? E quali e quante le altre fonti? La mia idea è netta, e la esprimo in modo netto, perché se ne possa lucidamente discutere: Obama ha vinto, perché a un certo punto l’establishment ha scelto Obama». Il secondo pericolo, per la sinistra, riguarda la sua stessa esistenza. L’entusiasmo per il nuovo Presidente è certo contagioso: «Per resistere, bisogna come Ulisse farsi legare al palo della nave, visto che non possiamo non vedere e non udire». Ma la verità (e non a caso forse qui ricompare l’ombra di Mao) è «che gli americani sono oggi veramente in tutto debitori dei cinesi. Hanno infatti applicato alla lettera il motto di Deng: non importa se il gatto è bianco o nero, importante è che acchiappi il topo. Miei cari, i topi siamo destinati ad essere noi». Bisogna dunque negare ogni novità? solo sempre il ciclo capitalista che si rinnova? Tronti non si tira indietro: «La novità c’è. Non è questo il punto. Ma l’arte di disporci dinanzi al nuovo in modo non subalterno non l’abbiamo forse imparata? / Nei confronti di un cambio di leadership nel bipartitismo americano, io non faccio una scelta strategica, ma tattica. Chi mi conviene che vinca, chi mi lascia più spazio di movimento, chi mi consegna migliore capacità di manovra?». Rispunta qui tutto il pragmatismo (e cinismo) del leninismo. Ma viene almeno offerta una spiegazione dell’antiamericanismo non come emozione, bensì come tattica. Tattica che come tale può variare percorso, come ora sta succedendo: «Era opportuno uscire dalla grande crisi con Roosevelt, perché così le lotte operaie potevano imporre il compromesso keynesiano. Era giusto allearsi con gli Usa per sconfiggere militarmente il nazifascismo. Si poteva essere kennediani, se avevi alle spalle la forza del Pci e la potenza dell’Urss: non c’era pericolo allora di metterti nell’onda progressista, semplicemente subendola. Anzi ti serviva per innovare nel tuo campo. Il discorso è sempre quello: l’iniziativa di cambiamento del tuo avversario, o sei in grado di utilizzarla, o altrimenti ne rimani vittima. Perché mi sento di dire che non possiamo dirci oggi obamiani? Semplicemente perché siamo deboli. / Era facile essere contro Bush, sarà difficile essere contro Obama». « un problema serio, forse il più serio», si avvia alla conclusione l’autore. «Ma il fatto che esso venga evocato dal passaggio Obama mostra che non c’è sottovalutazione della novità, c’è anzi preoccupazione che proprio la straordinaria novità non si tramuti di nuovo per noi in una ulteriore ordinaria difficoltà, di movimento e di pensiero, di comprensione e di azione». «Il mio è un Timeo Danaos et dona ferentes», è l’ultimo rigo. La citazione delle parole - tra le più tragiche della letteratura classica - che, nell’Eneide di Virgilio, Laocoonte lancia ai troiani, per convincerli a non fare entrare in città il famoso cavallo: «Temo i greci anche quando portano doni».