Piero Bianco, La Stampa 12/1/2009, 12 gennaio 2009
]PIERO BIANCO
INVIATO A DETROIT
Bloomfield è il quartiere esclusivo dei ricchi: ville faraoniche immerse nel verde, una security discreta per garantire la privacy ai top manager di traballanti colossi industriali. A soli 30 chilometri da Detroit, la Grande Crisi pare un incubo lontano, un brutto sogno da esorcizzare. Ma l’illusione dura poco. Anche ieri Rick Wagoner, da nove anni capo supremo della General Motors, ha dovuto lasciare la sua deliziosa casa colonica di Bloomfield, tre piani con un garage che può ospitare cento vetture, per l’ormai abituale tuffo nell’inferno. Lui è considerato il principale colpevole dello tsunami che ha quasi travolto l’ex gruppo automobilistico numero uno al mondo.
Forse lo cacceranno presto, ma intanto Wagoner resiste. Alle pressioni dei media e di Wall Street, alle accuse del Congresso, alle cassandre. A tutto. Ieri doveva recitare da leader carismatico, nella giornata inaugurale dell’Auto Show del Michigan, un Salone mai così depresso nella città-simbolo della crisi. E l’intramontabile Rick pareva Napoleone, con la sua cravatta gialla e quel metro e novanta di stazza che gli conferisce autorità: «Risorgeremo e torneremo grandi perché abbiamo uomini bravi e tecnologie eccezionali, siamo ancora capaci di costruire le auto più belle del mondo», ha detto con piglio fiero, come se davvero lo pensasse. «I recenti problemi finanziari non possono cancellare la nostra trionfale storia».
Con l’aria che tira nel mondo dell’automotive americana, ci si potevano immaginare legioni di operai incatenati e feroci contestazioni davanti al Cobo Center che ospita la rassegna. Qui, invece, i rivoltosi erano appena 42 e all’interno è andata in scena la seconda parte di una rischiosa commedia: una claque osannante di 600 dipendenti della Gm (rigorosamente selezionati) ha scandito ogni parola del capo con applausi e urletti da stadio, issando cartelloni filosofico-industriali. «Here to stay», «Game changer», oppure «We’re electric» e «Charged up» per enfatizzare i modelli elettrici presentati dalla General Motors (tra le 17 vetture esibite, la già vista Chevrolet Volt ma in versione definitiva e la sua derivazione Converj vestita da eccitante sportiva col marchio Cadillac). «Faremo macchine diverse, più piccole e più ecologiche, è questa la strada del nostro rilancio. A fine 2010 la Volt elettrica sarà in vendita», ha proseguito Wagoner. Peccato che fosse attesa già per quest’anno. Dettagli, ciò che conta è mandare messaggi a Washington: le sovvenzioni garantite da Bush, e che Obama dovrà confermare, sono subordinate allo sviluppo di tecnologie alternative.
Dunque, bisogna «dimostrare». La seconda rata (4 miliardi di dollari) arriverà solo a febbraio. Realtà virtale? «Nessuno ci ha pagati per applaudire, siamo venuti volontariamente da tutto il Michigan perché il nostro futuro è una certezza e non una speranza», spiega uno degli osannanti, Mike Bradley, 49 anni, operaio alla Powertrain di Pontiac. Rabyn Murphy, 40 anni, impiegata al Fleet & Commercial Finance, aggiunge che «soltanto chi è lontano poteva pensare che la Gm fallisse, a me garantisce stipendio e benessere». La sua collega Pam Reese, 44 anni, va oltre: «Io Wagoner lo amo, noi tutti lo amiamo». Addirittura.
Sorrisi e ottimismo. E’ davvero questa Detroit al tempo della crisi? Naturalmente no. Dietro la facciata del Salone emerge una città dannata, che si chiamava Motown ed è diventata Deadtown, la città morta. O della morte, fate voi: per l’Fbi è ormai la più violenta degli States, con 410 omicidi nel 2008. Vero che negli Anni Settanta si arrivò a quota 700, però allora la popolazione sfiorava i due milioni, oggi siamo a 890 mila, di cui l’86% afroamericani.
Chi può se ne va, ogni anno fuggono in 25 mila. Un terzo degli abitanti rimasti è ufficialmente povero, i giovani qui non hanno futuro se non quello di essere reclutati da una gang. Oltre 200 mila dipendenti di Gm, Ford e Chrysler (indotto compreso) negli ultimi 16 mesi hanno perso il lavoro, licenziati, e Detroit ha pagato il prezzo maggiore di questa ecatombe. Era la capitale dell’auto e della musica, incarnava il sogno americano e ne esportava il mito perfino nelle più sperdute balere di lontane province («spaghetti pollo e insalatina... a Detroit», cantava Fred Bongusto).
Oggi non ha nemmeno un sindaco, dopo che l’afroamericano Kwame Malik Kilpatrick a settembre ha dovuto dimettersi per messaggi erotici alla segretaria e tocca al sostituto Ken Cockel gestire l’interim in attesa delle elezioni di primavera. Si fa rispettare davvero soltanto Martin Luther King III, figlio del celebre Reverendo, che invita alla pace sociale «come unico mezzo per sopravvivere». Nel centro storico, in realtà, convive una moltitudine mista di piccola borghesia ed evidente disperazione. Di notte a piedi non si va in giro, senza il timore di essere depredati e magari accoltellati. Perfino di giorno il People Mover (un comodo trenino sopraelevato che collega i principali palazzi) è desolatamente vuoto. I benestanti, che abitano tutti fuori, compaiono soltanto per un concerto all’Opera House o per le partite di basket e di hockey dei Pistols e dei Red Wings alla Joe Louis Arena. Poi subito in macchina, e via. Le case nell’area urbana si sono paurosamente deprezzate: una villetta comprata vent’anni fa a 200 mila dollari, ne vale a stento 40 mila. Migliaia di appartamenti sono sfitti e in abbandono.
Tra gli showroom del gigantesco aeroporto da cui decollavano gli Executive dei manager oggi costretti al risparmio brillano, con quelle di Brooks Brothers, le vetrine di «Gm Collections» e «The Henry Ford»: vendono i reperti di una storia gloriosa. In città, però, le fabbriche che celebravano gli stessi marchi sono macerie, al massimo brandelli di archeologia industriale. Quella di Highland Park, dove nacque la catena di montaggio della celebre Ford T; quella della Chrysler in Dodge Main o l’ex centro ricerche di Studebaker Piquette. Ma è una storia vecchia, sono decenni ormai che qui non si produce più o si produce pochino, le grandi fabbriche se ne sono andate da Detroit verso location più comode e meno onerose. Resta attiva, nel Michigan, qualche azienda della componentistica: motori, trasmissioni. Soprattutto, qui c’è ancora il cuore operativo e strategico di Gm, Chrysler e Ford (quest’ultima a Dearborn, dove prolifica la più elevata densità di popolazione islamica degli Stati Uniti).
Fondata nel 1904 e a lungo invidiato gioiello industriale, Detroit oggi è lo specchio della crisi universale. In America i tre marchi di casa hanno perso 5,8 milioni di vetture in 7 anni, nel 2008 hanno chiuso 600 grosse concessionarie (sulle 20 mila totali) e il 10% è qui in Michigan. «Abbiamo i saloni pieni di berline e di Suv che nessuno compra - racconta Bob Gilbert, rivenditore Ford -. Non perché non piacciano più le macchine grosse: è che non ci sono i soldi e le banche non finanziano».
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