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 2009  gennaio 11 Domenica calendario

Storia della mafia

Capitolo 1 La nascita e l’evoluzione della normativa antimafia 1. La sottovalutazione da parte delle istituzioni del fenomeno mafioso La mafia è stata individuata dal legislatore come fenomeno criminale distinto rispetto alla comune delinquenza organizzata soltanto a partire dal 1982, anno di introduzione del reato di associazione mafiosa previsto dall’art. 416-bis c.p. Tale norma, per stessa ammissione di alcuni organi istituzionali, "riscatta l’indifferenza e l’agnosticismo che per troppo tempo vi è stato nel nostro ordinamento di fronte al fenomeno mafioso" (1). La storiografia esistente in materia di mafia, infatti, fa risalire la sua comparsa ufficiale nel tessuto culturale siciliano già prima della metà dell’ottocento. Il procuratore generale di Trapani Pietro Ulloa, in un rapporto inviato al Ministero di Giustizia di Napoli nel 1838, segnalava già la presenza di organizzazioni segrete, anche se ancora non si parlava di gruppi mafiosi bensì di "unioni o fratellanze, specie di sette" (2). La diffusione e lo sviluppo della mafia venne favorita dal processo di annessione della regione al Regno d’Italia. Le analisi storiche che hanno cercato di capire l’origine del comportamento mafioso concordano nell’attribuire un ruolo primario alla tradizionale ostilità con cui i siciliani guardavano alle norme e alle regole statali (3). Come tutte le occupazioni precedenti, anche l’unificazione con lo stato sabaudo venne considerata alla stregua dell’invasione da parte di una potenza straniera (4). In questo clima di diffidenza si svilupparono le prime associazioni tipicamente mafiose, intese come gruppi di persone che facevano ricorso a mezzi privati di risoluzione delle controversie (5). All’interno di questi gruppi si distinse la posizione di superiorità di alcuni individui, il cui potere veniva consolidato grazie al sostegno che ricevevano dalle comunità che vedevano le loro attività mirate a soddisfare i bisogni di tutti (6). Le regole morali su cui si reggevano questi gruppi favorirono senza dubbio il diffondersi di rapporti basati su favoritismi, clientele e protezioni che erano gestiti da cosiddetti "uomini di rispetto", le cui rete di relazioni si allargavano fino a raggiungere i detentori del potere istituzionale. Il termine "delitto di mafia" apparve per la prima volta nel linguaggio burocratico intorno al 1865, e con esso si intendeva espressamente il delitto che fosse commesso dal complice o dal mandante (7). Da sinonimo di delitto, la parola "mafia" passò successivamente ad indicare il nome di un’organizzazione di cui si denunciava la pericolosità pur non conoscendone ancora i connotati e le finalità. In particolare, questo avvenne quando l’opinione pubblica venne interessata dai dibattiti parlamentari sui provvedimenti straordinari proposti dal governo piemontese per ripristinare la sicurezza pubblica in Sicilia (8). Le inchieste di Franchetti e Sonnino del 1875 si occuparono di mafia sottolineandone, però, la contiguità con il sistema politico. Essi parlavano, infatti, di una "industria della violenza" praticata prevalentemente dai "facinorosi della classe media" che erano diventati "una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante", la cui sussistenza e il cui sviluppo andavano ricercati "nella classe dominante" (9). La mafia, che già reggeva sulle sue spalle il governo economico dell’agricoltura siciliana, ricevette la piena legittimazione quando i suoi rappresentanti divennero anche i capi ufficiali delle istituzioni pubbliche locali come i Comuni e le Province, grazie al tentativo effettuato dal Governo di guadagnare il favore della borghesia (10). Il rapporto di reciprocità che legava l’uomo di prestigio alla mafia faceva sì che fosse quest’ultima a decidere gli equilibri della regione, detenendo di fatto il monopolio dell’ordine pubblico e della coercizione fisica (11). Con l’avvento del regime fascista, si ebbe il primo tentativo di repressione poliziesca e giudiziaria del fenomeno, affidata al Prefetto di Palermo, Cesare Mori. Con l’intento di riappropriarsi dei centri di potere venne attuata "la più grossa sommaria e sbrigativa operazione chirurgica antimafia che sia mai stata concepita da un governo italiano" (12). L’operato del generale Mori, tuttavia, sembrava più ispirato da logiche governative di stampo autoritario piuttosto che dalla volontà di diffondere una cultura della legalità (13), e nel lungo periodo si dimostrò inefficace. Lo conferma il fatto che, caduto il fascismo e attenuatasi la stretta repressiva dello Stato in Sicilia, le antiche caratteristiche dell’agire mafioso andarono progressivamente riemergendo. Appena un anno dopo la fine della guerra, in Sicilia occidentale, quasi la metà dei sindaci, dei consigli comunali, e degli organi amministrativi regionali risultavano essere affidati ad uomini appartenenti alla mafia (14). Secondo il sociologo Henner Hesse, cui molti riconoscono il merito di essere stato uno dei primi ad affrontare l’analisi delle origini del fenomeno mafioso sotto un profilo antropologico e multidisciplinare, la causalità della generale ripresa della mafia nel dopoguerra va attribuita a tre fattori concomitanti. Il primo è un presunto accordo, stipulato negli Usa, fra Lucky Luciano (ossia la mafia americana) e i servizi segreti militari alleati, teso a facilitare l’occupazione militare della Sicilia. La riconoscenza degli americani, secondo Hesse, si risolse nell’affidare ai mafiosi gran parte dei ruoli dirigenziali all’interno delle amministrazioni comunali, nel procurare ad essi benefici economici, e nell’eliminazione di tutte le annotazioni penali che li riguardavano dai fascicoli della polizia, come riconoscimento del loro speciale impegno antifascista. La seconda congiuntura favorevole fu costituita dalle aspirazioni separatiste fortemente radicate nell’isola che portarono nel 1946, ancora prima dell’approvazione della Costituzione Repubblicana, alla concessione dell’autonomia amministrativa in Sicilia. La mafia, uccidendo i personaggi di spicco della lotta separatista come Salvatore Giuliano, si impadronì presto degli apparati di potere decisionale. Il terzo fattore fu rappresentato dagli ingenti flussi di denaro pubblico che dal ’46 in poi lo Stato ha elargito a favore dell’isola in sostegno di vari progetti di ammodernamento dell’agricoltura, per il miglioramento dello sfruttamento del suolo e del mare e per lo sviluppo dell’edilizia pubblica e privata. Tutto ciò fece dell’isola il paradiso di affari per la mafia, visto anche che il controllo finanziario da parte dello Stato era praticamente inesistente. L’analisi di Hesse viene per alcuni aspetti criticata dalla ricostruzione che altri autori fanno di quel periodo. In particolare, secondo questi ultimi, la rinnovata presenza nella mafia in Sicilia fu conseguenza di una più intrinseca compenetrazione tra mafia e politica, perseguita in un primo tempo dal movimento separatista, poi dal partito monarchico e infine della Democrazia cristiana, sulla base di un preteso interesse pubblico generale secondo il quale non vi sarebbe stato altro modo di fronteggiare e sconfiggere il pericolo comunista. Secondo Renda "Fu questo il vero patto scellerato, anche sostenuto o avallato e comunque non recriminato né respinto da alcuno dei governi o dei servizi dei paesi membri del Patto Atlantico, che consentì alla mafia di occupare non poche posizioni strategiche nel fronte di resistenza al movimento di trasformazione e di rinnovamento politico, morale, economico e sociale che percorse l’Italia all’indomani del 25 aprile 1945" (15). 2. L’istituzione della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia Durante tutto il dopoguerra, il legislatore sottovalutò pericolosamente l’analisi del fenomeno, considerato per lo più folcloristico o, comunque, non preoccupante (16). Verso la fine degli anni quaranta, tuttavia, alcuni scontri violenti tra cittadini, banditi ed esponenti mafiosi, culminati nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), attirarono l’attenzione sulla situazione dell’ordine pubblico in Sicilia. La prima proposta di legge per la costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla situazione dell’ordine pubblico in Sicilia risale al 14 settembre 1948. Essa venne, però, accolta dal Parlamento con toni per lo più sdegnati e disinteressati e non mancò chi tacciò l’iniziativa come un’azione di propaganda indecorosa e diffamatoria nei confronti dei siciliani (17). La stessa sorte toccò alla seconda proposta di costituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia presentata dal senatore Ferruccio Parri; malgrado l’iniziale incoraggiamento, per molto tempo il disegno di legge non fu preso in considerazione dalla maggioranza parlamentare (18). Quando, nel 1961, il Senato affrontò la discussione sul disegno di legge presentato tre anni prima, esponenti del partito della Democrazia Cristiana definirono l’iniziativa "inutile, antigiuridica e inidonea rispetto allo scopo da raggiungere" (19). Secondo la classe dirigente democristiana di allora, l’idea di costituire una Commissione parlamentare avrebbe finito per invadere competenze che erano della magistratura, del governo regionale e di quello nazionale; per questo motivo si riteneva più opportuno combattere il fenomeno delle organizzazioni mafiose facendo unicamente ricorso allo strumento della repressione di polizia, per altro fino ad allora utilizzato. Nel frattempo l’opinione pubblica veniva a conoscenza della massa di assoluzioni per insufficienza di prove con cui si concludevano gran parte dei processi di mafia che venivano avviati. Nelle more della discussione parlamentare, la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia andava aggravandosi, finché la stessa Assemblea regionale guidata da Piersanti Mattarella (20) chiese e ottenne, nel marzo 1962, che il problema della criminalità e della risposta normativo-istituzionale da darsi alla medesima fosse posto al centro dell’agenda politica del Parlamento. Questa iniziativa risultò decisiva per l’approvazione del disegno di legge Parri, che giunse prima della scadenza della legislatura. La prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia fu quindi istituita nel dicembre 1962 con la legge n. 1720; il suo compito fu quello di approfondire le conoscenze dei settori economici nei quali la mafia operava e di predisporre le misure necessarie per eliminarne la diffusione. I lavori della Commissione durarono complessivamente 13 anni, attraversando tre legislature. Nel 1965, sotto la presidenza del Senatore Pafundi, venne varata la prima vera e propria legge antimafia, che, come vedremo più avanti, costituisce tuttora, nonostante le modifiche, il perno centrale attorno al quale ruota tutto il sistema di repressione del fenomeno mafioso. Nel 1966 la Commissione effettuò due indagini, una sul credito e una sui processi di mafia nel dopoguerra. Temendo gli effetti devastanti che potevano derivare a livello elettorale, il presidente Pafundi e il suo partito, la Democrazia cristiana, decisero di non rendere pubblici i risultati, nonostante l’opposizione di alcune frange del parlamento. La relazione conclusiva presentata da Pafundi nel 1968, anche se con molta prudenza, ammise comunque l’esistenza di infiltrazioni mafiose all’interno degli enti locali siciliani. Nonostante l’opera deludente della Commissione, per la prima volta dopo il fascismo la mafia si scontrò con una volontà politica ostile e con un’azione giudiziaria più incisiva, grazie soprattutto alle istruttorie del giudice Terranova (21), il quale riuscì a scalfire per la prima volta la tradizionale integrità dell’organizzazione obbligando parecchi mafiosi alla latitanza. Negli anni 1968-72 la presidenza della Commissione Antimafia, presieduta da Francesco Cattanei, condusse approfondite indagini sul "caso Liggio" (22), sull’amministrazione comunale di Palermo, sui suoi edifici scolastici, sui mercati all’ingrosso della città e sui rapporti mafia-banditismo. La relazione, pubblicata nel 1972, individuava come caratteristiche costanti dell’agire mafioso "il fine di lucro conseguito attraverso forme di intermediazione e di inserimento parassitario, l’uso sistematico della violenza e soprattutto il collegamento con i pubblici poteri" (23), e divenne un importante punto di riferimento per le indagini e le relazioni successive. Inoltre, la relazione sottolineava l’importanza del traffico clandestino dei tabacchi e della droga, richiamando anche l’attenzione su un nuovo dato allarmante che sino a quel momento si era cercato di negare: l’inserimento della mafia in realtà diverse da quella siciliana (24). A causa delle elezioni politiche anticipate del 1972 la Commissione fu costretta a chiudere i suoi lavori prima di poter discutere il rapporto sulle esattorie siciliane. L’attesa per i lavori della successiva Commissione venne vanificata dalla successiva sostituzione del Presidente uscente con il Senatore Luigi Carraro, figura ritenuta più sensibile alle valutazioni fatte dalla DC, che si riteneva attaccata dalle indagini svolte dalla Commissione Cattanei (25). La prima Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, dunque, terminò i suoi lavori nel 1976 con la pubblicazione di 42 volumi di atti, accompagnati da una relazione di maggioranza e due di minoranza. La relazione di maggioranza condivideva la tesi allora dominante secondo la quale, non esisteva un’organizzazione formale mafiosa e che sottovalutava il collegamento tra mafia e pubblici poteri emerso durante i precedenti lavori della Commissione, considerando la mafia piuttosto come un fenomeno sempre più simile al gangsterismo. I materiali allegati alle diverse relazioni della Commissione Carraro resero di pubblico dominio una gran mole di documenti, compresi i verbali di sedute della stessa, anche se molti accertamenti vennero coperti da "omissis". Le conclusioni evidenziarono l’esistenza di una complicità tra la mafia e l’area politica governativa, ma il quadro non venne sufficientemente chiarito; anzi il democristiano Carraro dette un’immagine ottimistica della situazione e dello stato della lotta alla mafia, tale da indurre il Parlamento a non prorogare l’attività della Commissione. 2.1 La prima legge antimafia (legge n. 575/65) Il primo intervento normativo compiuto a seguito dell’istituzione della Commissione antimafia fu costituito dall’emanazione della legge 31 maggio 1965, n. 575 recante "Disposizioni contro la mafia". L’avvenuto mutamento della realtà criminale e le difficoltà riscontrate nei processi contro mafiosi, di raccogliere il materiale probatorio sufficiente per giungere ad una sentenza di condanna, indusse il legislatore ad allargare l’ambito di applicabilità delle misure di prevenzione, già introdotte nel nostro ordinamento con la legge n. 1423 del 1956 (26). Attraverso l’emanazione della legge n. 575/65, il legislatore allargò la sfera soggettiva di applicazione delle misure di prevenzione, prevedendo che queste sarebbero state attivabili anche nei confronti dei soggetti "indiziati di appartenere ad associazioni mafiose" (27). La novità della legge sopra citata sta nell’aver introdotto i cardini basilari dell’assetto giuridico indirizzato a combattere la criminalità organizzata, ma i suoi effetti pratici nella lotta alla mafia non si dimostrarono così risolutivi. In primo luogo, la legge, poneva notevoli problemi interpretativi a causa dell’indeterminatezza del termine "indiziati" di mafiosità, finendo per rendere l’applicazione delle misure di prevenzione del tutto discrezionale ed aleatoria (28). Avallate dalla Corte Costituzionale, queste misure risultarono comunque radicalmente avversate dalla dottrina penalistica perché fondate sul "sospetto" e non già sui fatti su cui si impernia il diritto penale liberale (29). In secondo luogo, malgrado la legge imponesse al soggetto una serie particolare di obblighi e prescrizioni che ne limitavano la libertà di movimento e la capacità di delinquere, le misure risultavano facilmente eludibili. Nel 1969, proprio l’applicazione di tale misura di prevenzione a due famosi boss mafiosi, quali Luciano Leggio e colui che all’epoca risultava essere il suo luogotenente, Totò Riina, destò particolare clamore per la facilità con cui i due riuscirono a rendersi latitanti, disobbedendo agli ordini impartiti dall’autorità giudiziaria, e raggiungendo il nord Italia dove ricostruirono il tessuto base per i loro affari illeciti (30). Secondo l’opinione di molti, inoltre, anziché prevenire la commissione di reati (31) l’applicazione di misure di prevenzione si è tradotta spesso in occasioni di "esportazione" di metodi e comportamenti tipicamente mafiosi in zone del Paese che ne erano tradizionalmente immuni (32). Un successivo ampliamento della normativa antimafia avvenne ad opera della legge 22 maggio 1975, n. 152 recante "Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico", detta anche "legge Reale" dal nome dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia. L’art. 19 della legge prevedeva la completa equiparazione di trattamento tra gli indiziati di mafiosità e i soggetti responsabili di atti preparatori diretti alla commissione di reati di sovversione e terrorismo, per quanto riguardava l’utilizzazione delle misure di polizia. Tuttavia, per risolvere definitivamente la questione dell’individuazione dell’ambito soggettivo del concetto di "indiziato di mafia", si è dovuto attendere sino al 1982, anno del vero e proprio salto di qualità della legislazione antimafia in Italia. Subito dopo la sua entrata in vigore, la legge Reale fu oggetto di critiche anche molto accese che non si limitavano alla parte relativa alle misure di prevenzione (33); essa, secondo molti, ha rappresentato il modello della "legge penale dell’emergenza" che negli anni successivi ha caratterizzato la produzione normativa in tema di lotta al terrorismo politico, e che ha consentito di aggirare le garanzie costituzionali poste a tutela della libertà dei cittadini (34). Negli anni successivi, la produzione normativa emergenziale si è concentrata soprattutto nella lotta all’eversione politica facendo passare in secondo piano il fenomeno della criminalità organizzata. Le norme sostanziali e processuali più restrittive toccarono vertici di durezza mai raggiunti in precedenza, soprattutto in tema di libertà personali, ma non riuscirono a contenere il diffondersi ed il consolidarsi delle organizzazioni mafiose, le cui attività illecite, in quegli stessi anni, risultarono essere quanto mai vive e vitali (35). 3. L’introduzione dell’art. 416-bis c.p. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta iniziò una feroce guerra di mafia che vide la commissione di numerosi omicidi perpetrati dalle diverse famiglie mafiose; contemporaneamente la mafia aveva preso ad attaccare ogni rappresentanza delle istituzioni che costituisse un ostacolo all’espansione delle sue attività illecite. In particolare, il 30 aprile del 1982, a Palermo, venne ucciso in un attentato Pio La Torre, deputato e segretario regionale del PCI siciliano, insieme al suo autista; dopo poco più di quattro mesi, il 3 settembre dello stesso anno, sempre a Palermo, avvenne l’uccisione del prefetto di Palermo, generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta. Lo Stato reagì con l’introduzione di due provvedimenti emergenziali che cambiarono definitivamente il corso della lotta istituzionale alla mafia. Il 6 settembre 1982, dopo solo 3 giorni dall’omicidio di Dalla Chiesa, venne varato il D.L. n. 629, convertito con modificazioni, nella legge 12 ottobre 1982, n. 726, recante "Misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa", che istituì l’Alto Commissariato per il coordinamento contro la delinquenza mafiosa. Al nuovo organo, sottoposto agli ordini diretti del Ministro dell’Interno, vennero attribuiti particolari ed autonomi poteri di indagine presso le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici anche economici, le banche e gli istituti di credito pubblici e privati, con la possibilità di avvalersi degli organi di polizia tributaria nell’espletamento delle proprie funzioni (36). Pochi giorni dopo, il 19 settembre, venne varata la legge n. 646/82, più comunemente conosciuta come "Rognoni-La Torre" che assunse una fondamentale importanza per aver introdotto l’art. 416-bis nel Codice Penale. Attraverso tale articolo, rubricato "Associazione di tipo mafioso" (37), il legislatore non solo sancì definitivamente il carattere illecito dell’organizzazione mafiosa, ma tentò per la prima volta di darne una definizione giuridica che fosse capace di individuare i suoi meccanismi di funzionamento. La nuova figura di reato si riferiva, infatti, a quelle associazioni che, pur costituendo un pericolo per l’ordine pubblico, non presentavano tutti i requisiti propri dell’associazione per delinquere prevista dal preesistente art. 416 c.p. Secondo la descrizione di quest’ultima fattispecie criminosa era infatti necessario che la societas sceleris fosse sorta in funzione della commissione di delitti, risultando inadeguata a perseguire alcune moderne manifestazioni del fenomeno mafioso nel caso questo avesse avuto di mira il perseguimento di scopi paraleciti non costituenti delitto (38). Ecco perché il legislatore ha imperniato la nuova fattispecie sulla forza intimidatrice del vincolo associativo, da cui nascono l’assoggettamento e l’omertà di quanti entrano in rapporti con l’associazione. La previsione di cui all’art. 416-bis c.p. rappresentò una vera e propria innovazione nel nostro ordinamento, ma non mancò di provocare molte polemiche, per alcuni versi ancora attuali, circa i pericoli di strumentalizzazione cui la fattispecie era esposta a causa della genericità della sua descrizione (39). La legge Rognoni-La Torre, inoltre, introdusse per la prima volta, le misure di prevenzione patrimoniali, volte a colpire l’accumulazione illecita di patrimoni; accanto a queste, vennero previste anche nuove misure interdittive finalizzate ad ostacolare lo sfruttamento mafioso delle attività della pubblica amministrazione, nonché l’istituzione della seconda Commissione parlamentare antimafia (40). La legge n. 646/82 non attribuì poteri di inchiesta alla Commissione parlamentare; i compiti che le furono attribuiti furono quelli di verificare l’attuazione delle leggi antimafia, di monitorare l’azione dei pubblici poteri, ed infine, di suggerire al Parlamento eventuali misure legislative e amministrative dirette a contrastare la criminalità organizzata. Le innovazioni contenute nella legge determinarono notevoli risultati positivi nel primo periodo di applicazione. I dati disponibili nel dicembre 1984 evidenziavano un elevato numero di persone denunciate ai sensi della nuova fattispecie e numerose proposte di applicazione di misure di prevenzione personali, consistenti accertamenti patrimoniali e non pochi sequestri e confische di beni. Sul fronte giudiziario, nel frattempo, si registrava un intenso impegno dei magistrati della Procura della Repubblica di Palermo riuniti in uno speciale pool di indagine guidato inizialmente dal giudice istruttore Rocco Chinnici, a cui successe, dopo il suo omicidio (41), il giudice fiorentino Antonino Caponnetto. Grazie alla previsione di cui al 416-bis c.p. e alle dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia (42) il pool di Palermo istruì il "maxiprocesso" che, iniziato il 10 febbraio 1986 e protrattosi per diversi anni, porterà nel 1992 a numerose condanne sia dei capi che dei gregari dell’organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" (43). Negli anni successivi, tuttavia, l’efficacia delle misure di prevenzione patrimoniali è andata progressivamente diminuendo, facendo registrare una costante riduzione sia dell’entità dei beni oggetto dei provvedimenti di prevenzione, sia del valore deterrente da essi spiegato. (44) I processi contro i capi di Cosa Nostra incontravano notevoli difficoltà di svolgimento a causa soprattutto dell’elevato numero di imputati coinvolti (45). 3.1 I lavori della seconda Commissione antimafia La Commissione antimafia che seguì le prime applicazioni della legge Rognoni - La Torre, effettuò numerose visite in territori particolarmente esposti al problema del fenomeno mafioso ed analizzò l’andamento delle attività criminali di Cosa Nostra dopo la sua entrata nel mercato degli stupefacenti. Dalle analisi effettuate nel corso dei suoi lavori emerse che, malgrado i progressi compiuti in virtù della legge n. 646/82, col passare del tempo la risposta istituzionale risultava essersi indebolita. Lo Stato stava avviandosi pericolosamente verso un processo di normalizzazione, a cui però non corrispondeva un cessato allarme sul fronte delle attività di matrice mafiosa (46). Cosa Nostra risultava essersi evoluta e rafforzata ed il suo potere si estendeva su tutto il territorio nazionale. Si registrava un gigantesco incremento di società finanziarie anonime, nonché di banche ed istituti di credito finalizzate al riciclaggio di denaro sporco; risultava, inoltre, elevato il numero di casi di infiltrazione mafiosa nei settori decentrati della pubblica amministrazione (47). In questo ambito, in particolare, la Commissione denunciava una carenza di attenzione. In Sicilia, Campania e Calabria le guerre di mafia risultavano essere ancora in corso: le organizzazioni colpite da azioni giudiziarie dimostravano una notevole capacità di ripresa grazie alla velocità con cui venivano ripristinati i ruoli dirigenziali. Sotto questo profilo le carceri giocavano un ruolo fondamentale poiché era all’interno di queste che si tessevano "trame e relazioni per ricomporre le fila" (48); le carceri, inoltre, avevano favorito pericolose saldature tra la criminalità eversiva e quella mafiosa. 4. La legge n. 55 del 1990 e la nascita del "doppio binario" nei confronti dei detenuti per i reati di criminalità organizzata. Nel 1987, allo scadere della IX legislatura, la Commissione parlamentare terminò i suoi lavori e si fece promotrice di una proposta di legge. A causa dello scioglimento anticipato delle Camere la proposta della Commissione non trovò occasione di dibattito. L’anno successivo, tuttavia, il Ministro dell’interno Gava e il Ministro di grazia e giustizia Vassalli ripresero in larga parte le iniziative suggerite dalla Commissione Antimafia e presentarono un disegno di legge, intitolato "Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale" (49), successivamente convertito nella legge 19 marzo 1990, n. 55, dettato dall’esigenza di "procedere ad un rapido riesame e aggiornamento degli strumenti normativi in vigore per ricalibrarne la disciplina in relazione alle mutate strategie delle organizzazioni criminali" (50). Nella relazione introduttiva veniva spiegato che il disegno di legge andava ad inserirsi in un contesto più ampio di provvedimenti anticrimine, il primo dei quali era già stato attuato attraverso il conferimento di poteri più incisivi all’Alto Commissariato antimafia (legge 15 novembre 1988, n. 486). Gli altri interventi che il Governo si impegnava a porre in essere avrebbero riguardato proposte di integrazione della legislazione sugli stupefacenti e l’avvio di programmi di potenziamento degli organici e dei mezzi delle forze di polizia (51). Le innovazioni previste dal disegno di legge erano per lo più indirizzate a modificare e a rafforzare le leggi n. 575/65 e 646/82; esse infatti riguardavano per lo più la materia delle misure patrimoniali, i procedimenti relativi alla concessione di finanziamenti, di contributi, e di incentivi di varia natura, nonché la previsione di norme sulla trasparenza degli enti locali e nuove fattispecie di reati economici e finanziari. A causa della molteplicità e della complessità degli argomenti trattati, il dibattito parlamentare si protrasse per oltre un anno. Nel corso della conversione in legge del provvedimento, tuttavia, venne approvato un emendamento che introdusse una modifica ad una materia non contemplata nel nucleo originario del disegno di legge, e che anzi mal si armonizzava con esso. In particolare, derogando alla disciplina varata pochi anni prima dalla legge Gozzini relativa ai permessi premio ex art. 30-ter o.p., venne introdotto l’art. 13 del d.d.l. che aggiunse un nuovo comma 1-bis all’articolo 30-ter (52). La novella risultava così formulata: "Per i condannati per reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di criminalità organizzata, nonché per il reato indicato nell’articolo 630 del codice penale, devono essere acquisiti elementi tali da escludere la attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata". Al momento della sua presentazione l’emendamento non venne illustrato e venne approvato all’unanimità con la sola eccezione del senatore Corleone, che propose la sua soppressione (53). La previsione di cui all’art. 13 della legge n. 55/90 potrebbe apparire a prima vista una variazione di scarso rilievo, tuttavia, essa rappresentò il punto di partenza per una serie di interventi normativi di emergenza che fecero registrare un notevole inasprimento della normativa in materia di mafia e criminalità organizzata, sia sul piano penale che processuale, sia soprattutto su quello dell’esecuzione penale. Di questo, in particolare, ci occuperemo nel prossimo capitolo dove analizzeremo i vari passaggi che hanno portato all’introduzione del "doppio binario" nel trattamento penitenziario, e alla previsione del regime di cui all’art. 41-bis comma 2 o.p. L’altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità - ISSN 1827-0565