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 2009  gennaio 15 Giovedì calendario

PINO BUONGIORNO PER PANORAMA 15 GENNAIO 2009

Se si sgonfia il Dragone. Cina. Oltre 67 mila aziende fallite, milioni di disoccupati, previsioni di crescita al 5 per cento (nel 2007 aveva toccato il 12). Il miracolo economico rallenta ed è a rischio la stabilità del paese diventato la fabbrica del mondo. Basteranno i massicci aiuti del governo?
Wang Yang, 53 anni, è uno dei mandarini della quinta generazione comunista in Cina, quella che prenderà il potere dopo il 2012. Il presidente Hu Jintao lo considera uno dei suoi migliori allievi: l’ha promosso un anno fa segretario del partito nella provincia meridionale del Guangdong, in buona sostanza governatore dell’area industriale che vanta la crescita più dirompente, a un tasso del 14,4 per cento negli ultimi 20 anni. Wang Yang è anche un convinto riformista. Nel mese di giugno, approfittando delle vicine Olimpiadi, sosteneva con entusiasmo la necessità di «una terza fase della liberazione del pensiero», vale a dire una maggiore democrazia nel partito unico, per renderlo più trasparente. Oggi Wang ha altre battaglie da combattere. Da quando, a settembre, anche in Cina la crisi economica globale ha cominciato a far sentire i primi drammatici effetti sulle esportazioni, il «giovane maresciallo», come tutti lo chiamano per il suo decisionismo, si è concentrato su come far fronte alla grande emergenza del 2009. La città di Dongguan è quella che lo preoccupa di più. Se la Cina è la fabbrica del mondo, Dongguan è la filiale più grossa. qui che 3.800 aziende producono il 30 per cento dei giocattoli venduti in America, in Europa e in Medio Oriente. Ebbene, 1.800 di queste, secondo i dati forniti dall’associazione degli industriali locali, sono già fallite o stanno per dichiarare bancarotta. Il caso della Smart Union, di proprietà di imprenditori di Hong Kong, è l’emblema della crisi cinese. A ottobre, un orribile venerdì 17, i manager della fabbrica, che forniva bambole Barbie e altri giocattoli alla Mattel e alla Disney, hanno chiuso all’improvviso i due stabilimenti di Guangdong e sono scappati di notte. I 6.500 lavoratori, che non ricevevano lo stipendio da agosto, hanno protestato con rabbia e si sono scontrati con la polizia. Il governatore ha ordinato alle autorità locali di raccogliere 3 milioni di euro in modo da pagare i salari arretrati. Episodi come questi sono all’ordine del giorno in Cina. Se ne parla nelle stanze del politburo, dove è stato elaborato un rapporto allarmante per il parlamento, secondo il quale «l’impatto della crisi nata in America si è diffuso dalle aree costiere alle regioni interne, colpendo le società orientate verso l’export e le piccole e grandi imprese». Ma se ne discute con enfasi finora sconosciuta anche nei convegni pubblici. Come quello organizzato poco prima di Natale a Pechino dalla Cheung Kong, la più prestigiosa scuola di business. Uno dei partecipanti, il professore di economia Wang Yijiang, non ha celato il suo pessimismo in un paese che pure non rischia la bancarotta, grazie a riserve in valute estere che ammontano a 1.900 miliardi di dollari e alle banche, che finora sono risultate poco esposte alla crisi dei mutui americani e alle truffe internazionali. A Panorama l’economista ha ribadito quello che lui considera il pericolo maggiore per la Cina: «Nel 2009 potremmo assistere a sconvolgimenti sociali e a proteste diffuse. La situazione occupazionale è seria. Dieci milioni di persone entrano nel mercato del lavoro ogni anno e al momento ci sono altri 10 milioni di neolaureati che cercano un posto. L’economia cinese, quando va bene, riesce a creare solo da 6 a 8 milioni di nuovi impieghi. Ma per far questo ha bisogno di una crescita non inferiore all’8 per cento». Quell’obiettivo è seriamente a rischio. Un recente studio della Royal Bank of Scotland fissa la crescita del pil nel 2009 a un modesto (per la Cina) 5 per cento dopo 30 anni ininterrotti di boom. La Gold man Sachs alza l’asticella al 6 per cento. L’ufficio di Pechino della Banca mondiale prevede il 7,5 per cento. Comunque al di sotto di quella che è considerata la linea Maginot della stabilità. Yu Faming, direttore generale del dipartimento per la promozione dell’occupazione al ministero delle Risorse umane e della previdenza sociale, ha fornito una cifra che fotografa la gravità della situazione: «Oltre 10 milioni di persone che erano emigrate nelle città per trovare lavoro sono tornate nelle campagne». Una quarantina di operai, licenziati da un’azienda del Guangdong, hanno rubato dieci moto-risciò e affrontato un viaggio di 2.500 chilometri per far ritorno a Chengdu, la capitale del Sichuan. Solo tre dei mezzi sono giunti a destinazione dopo 20 giorni. Le imprese più colpite sono le piccole e medie: 67 mila hanno chiuso nella prima metà del 2008. Considerate la spina dorsale dell’economia cinese, costituiscono il 99 per cento delle aziende, creano il 60 per cento del pil, occupano il 70 per cento della forza lavoro e pagano il 50 per cento delle tasse. «Il governo sta facendo poco per aiutarle e si occupa più che altro dei colossi industriali» accusa Wang. Nello stesso seminario economico di Pechino una visione più ottimistica l’ha fornita Jing Ulrich, 41 anni, direttore della sezione cinese della banca J.P. Morgan, che la rivista americana Forbes ha inserito fra le 100 donne più potenti del mondo. «Credo che il governo cinese stia reagendo bene con le misure più aggressive che si potessero prendere» ha dichiarato Jing Ulrich a Panorama, riferendosi ai cinque tagli ai tassi di interesse negli ultimi tre mesi per pompare miliardi di yuan nell’economia reale. Ancora più importante è il pacchetto di stimoli governativi, pari a 585 miliardi di dollari, per sostenere la domanda interna, indebolita dal rilevante calo della borsa e dal rallentamento del settore immobiliare. «Il 45 per cento di queste misure è costituito da grossi investimenti nelle infrastrutture, come autostrade, porti e aeroporti» precisa Jing Ulrich, plaudendo alla politica keynesiana di Pechino. «I primi effetti si sentiranno dal secondo trimestre 2009, anche se le banche potrebbero dimostrarsi restie a concedere i prestiti soprattutto alle aziende di spessore piccolo o medio. Prevedo comunque che il calo dei ricavi aziendali continuerà per tutto l’anno. Primi settori a riprendersi dovrebbero essere le telecomunicazioni e la sanità. Ma voglio vedere quello che farà il governo per le campagne, in particolare a marzo, quando saranno diffusi i dettagli della riforma agraria». Sarà una prova decisiva per quella «società armoniosa» di cui tanto parla la propaganda del presidente Hu Jintao, tesa a ridurre il divario fra la costa e l’interno del paese. I contadini, ma anche gli emigrati tornati dalle città, potrebbero coltivare le proprie terre guadagnando a sufficienza, quasi quanto gli operai. Sarebbe anche il modo migliore per ridurre le rivolte contro la dirigenza comunista, locale e centrale, proprio nel ventennale di Tienanmen. Wang Yang, il giovane capo politico del Guangdong, sta lavorando alacremente a questi progetti e punta su un nuovo modello di business per la sua provincia. Non più migliaia di piccole imprese che fabbricano oggetti di scarsa qualità e con bassissimi margini di profitto, ma aziende ad alto valore aggiunto e con tecnologie più sofisticate, in modo da integrarle con le vicine Hong Kong e Macao. una formidabile scommessa.