Giovanni Porzio, Panorama, 15 gennaio 2009, 15 gennaio 2009
GIOVANNI PORZIO PER PANORAMA 15 GENNAIO 2009
Guerra a gaza Arabi contro. L’attacco israeliano ha esasperato divisioni e conflittualità tra i paesi musulmani. Le piazze e i leader radicali accusano i paesi moderati, anzitutto l’Egitto, di collusione con il nemico sionista. Anche Abu Mazen, presidente palestinese, perde consensi, mentre nel sud del Libano Hezbollah continua ad armarsi. Perciò la pace è sempre più lontana.
La guerra non si combatte solo a Gaza. Mentre i carri armati israeliani cannoneggiano le infrastrutture civili e militari di Hamas e si attestano tra le macerie delle colonie ebraiche evacuate da Ariel Sharon nell’agosto 2005, un altro pericoloso conflitto infiamma il Medio Oriente: quello tra i paesi arabi legati all’Occidente (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) e gli stati radicali (Iran e Siria) che armano Hezbollah e i miliziani delle brigate Ezzedin al-Qassam. una guerra sotterranea per la leadership politica del mondo islamico, spaccato tra sciiti e sunniti, estremisti e moderati, laici e integralisti. Incapaci di superare i contrasti che li dividono persino sulla logora e abusata bandiera della questione palestinese. L’ennesima, insanabile frattura si è consumata nella generale indifferenza la scorsa settimana al vertice della Lega araba al Cairo: una «riunione d’emergenza» conclusasi in un nulla di fatto, scandita da rituali attestazioni di solidarietà per le vittime dell’operazione Piombo fuso, appelli al cessate il fuoco e imbarazzate accuse tanto a Israele quanto a Hamas. «Mentre le piazze, da Tripoli ad Amman, si riempivano di cortei di protesta» commenta Nabil Abdel Fattah, analista del Centro di studi strategici Al-Ahram «il panarabismo si è rivelato per quello che è diventato: uno slogan ormai privo di significato, un simulacro pieno di crepe». Le ambizioni egemoniche di Teheran sono evidenti. L’Iran di Mahmoud Ahmadinejad ha consolidato la propria influenza politica e religiosa in Iraq, nel Libano meridionale e nella Striscia di Gaza, alle porte del Sinai. L’alleanza militare tra gli integralisti sunniti di Hamas, gli ayatollah iraniani e gli sciiti di Hezbollah rappresenta un rischio intollerabile, non solo per lo stato ebraico. « una minaccia per tutti i paesi arabi» avverte il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni. In primo luogo per l’Egitto e le monarchie del Golfo, accusati di complicità con Gerusalemme: il leader di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, artefice della «vittoria» dell’agosto 2006 contro Israele e del successivo riarmo delle sue milizie (nonostante la presenza dei caschi blu dell’Unifil l’arsenale di Hezbollah disporrebbe oggi di oltre 40 mila missili), ha invocato una rivolta contro il regime di Hosni Mubarak, che ha stigmatizzato la «selvaggia aggressione» israeliana ma ha sigillato il valico di Rafah, impedendo la fuga in Egitto ai palestinesi della Striscia. Il comportamento ambiguo del rais è comprensibile. In Egitto, malgrado una dura repressione poliziesca, l’Islam militante continua a reclutare adepti e i Fratelli musulmani, di cui Hamas è una costola ideologica, sono il principale partito di opposizione. Dall’operazione Piombo fuso Mubarak ha tutto da guadagnare. E negli ultimi mesi, benché impegnato nel vano sforzo di riconciliare Hamas con al-Fatah, ha lavorato in segreto con Israele, con gli Stati Uniti (generosi dispensatori di aiuti economici e militari al Cairo) e con il presidente dell’Anp, Abu Mazen-Mahmud Abbas, per isolare il movimento islamista. Allo stesso tempo ha chiuso gli occhi sui traffici clandestini alla frontiera di Rafah: dai tunnel ora in parte distrutti dall’aviazione israeliana i contrabbandieri trasportavano, con le armi e gli esplosivi, medicinali, carburante e generi alimentari indispensabili alla sopravvivenza della popolazione di Gaza, strangolata dall’embargo israeliano. E il rais temeva che senza la valvola di sfogo del mercato nero migliaia di palestinesi affamati si sarebbero riversati in Egitto, assieme ai miliziani di Hamas. Anche per questo, adesso, il confine resta chiuso, presidiato dall’esercito e dagli agenti del Mukhabarat. Ma è un azzardo quello di Mubarak. La sua credibilità è ai minimi storici: alla vigilia dell’offensiva aveva ricevuto al Cairo Tzipi Livni, alimentando il sospetto che fosse stato preventivamente informato dell’attacco israeliano. E dall’esito del conflitto uscirà in ogni caso indebolito: se Hamas non fosse sconfitto, ma anche se Israele conseguisse un successo che l’opinione pubblica araba attribuirebbe, almeno in parte, all’ondivaga politica del rais. Altrettanto critica è la posizione di Mahmud Abbas, il cui mandato in scadenza a gennaio è stato prorogato di un anno. Le sue tardive parole di condanna per l’offensiva a Gaza non sono servite a placare l’ira degli arabi di Israele e dei palestinesi della Cisgiordania, che lo accusano di connivenza con il nemico e minacciano una nuova intifada nei territori occupati, dove la legittimità dell’Anp appare sempre meno scontata. Anche la Giordania e l’Arabia Saudita sono sulla difensiva: la polarizzazione dello scontro tra paesi moderati e radicali rischia di destabilizzare i regimi arabi più vicini all’Occidente. Televisioni e giornali iraniani e siriani si scagliano senza sosta contro i governi che il colonnello libico Muammar Gheddafi ha marchiato in tre parole: «deboli, vigliacchi, disfattisti». E la propaganda incendia le strade: gruppi di manifestanti hanno assalito il consolato egiziano ad Aden, nello Yemen; a Teheran gli studenti hanno attaccato l’ambasciata britannica; violente dimostrazioni si sono svolte a Beirut, Amman, Damasco, Il Cairo, Ramallah, Giacarta e persino a Kabul. «Non c’è più margine per il dialogo» afferma sconsolato Muhammad al-Masri, ricercatore al Centro di studi strategici di Amman. «Chi tace è considerato colluso con Israele e gli Stati Uniti». Tace, preoccupato, il sovrano saudita Abdullah, che nel 2002 a Beirut aveva sponsorizzato il piano di pace panarabo e che era in trattativa con la Siria per risolvere il lungo contenzioso tra i due paesi, ora nuovamente congelato. Anche la posizione di Riad è ambigua. Alleato di ferro di Washington e primo fornitore arabo di greggio agli Stati Uniti, il regno wahhabita è il più esposto agli urti dello sciismo militante e degli ayatollah di Teheran. Ma attraverso le sue fondazioni religiose è al tempo stesso uno dei principali finanziatori di Hamas. Tace, dopo la formale richiesta di porre fine al massacro di Gaza, anche il presidente siriano Bashar al-Assad, che vede sfumare la speranza di un accordo con Israele sulla restituzione delle alture del Golan. I negoziati indiretti inaugurati in maggio con la mediazione turca sono stati sospesi. Le sue caute aperture all’Europa, tese a rianimare un’economia moribonda, soffocata da decenni di burocrazia socialista, si sono bruscamente arenate. E intanto sabato scorso è piombato a Damasco il capo del Consiglio supremo iraniano per la sicurezza nazionale, Said Jalili. Che ha incontrato due ospiti di Assad: i leader di Hamas e della Jihad islamica in esilio, Khaled Meshaal e Ramadan Abdullah Shallah. Il tentativo di riannodare i fili della diplomazia araba resta paradossalmente affidato a un membro della Nato: la Turchia. Paese chiave, per i suoi rapporti con Israele e con il mondo islamico. Il premier Recep Erdogan ha sì definito un «crimine contro l’umanità» l’attacco a Gaza. Ma è un atto dovuto, un biglietto da visita per la sua prossima tournée al Cairo, Riad, Amman e Damasco che non può scalfire l’intesa strategica tra Ankara (prima capitale musulmana a riconoscere lo stato ebraico nel 1949) e Gerusalemme, legate dal 2000 da un trattato commerciale di libero scambio. E non solo. Le marine dei due paesi conducono esercitazioni navali congiunte e le forze armate turche stanno negoziando l’acquisto dei satelliti spia israeliani Ofeq e dei missili Arrow. inoltre in progetto la costruzione di un oleodotto dalla Turchia a Israele, attraverso la Siria. Erdogan punta a sostituire l’anziano e spompato rais del Cairo nel ruolo di mediatore tra i due schieramenti del mondo arabo. Ma le distanze sono ormai siderali. E finché sui teleschermi di Al-Jazeera continueranno a scorrere le immagini dei bambini di Gaza uccisi dalle granate israeliane, può solo sperare di raggiungere, nel migliore dei casi, un inutile compromesso di facciata.