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 2009  gennaio 10 Sabato calendario

MAFIA E POLITICA


Tutte le anomalie di cui sono stato testimone mi hanno fatto capire che Provenzanonon volevano catturarlo perché aveva un compito ben preciso». A parlare è un ufficiale dei Carabinieri in pensione, il colonnello Michele Riccio. Il particolare è stato rivelato ieri nel corso di un processo che dal luglio scorso si svolge a Palermo: un processo importante di cui poco o nulla è stato finora detto.Un «processo nascosto». Proviamo a capire perché. Sul banco degli imputati siedono due pezzi da novanta delle forze dell’ordine: il generale Mario Mori e il colonnelloMauroObinu. Il primo, ex-capo del Ros dei carabinieri e del Sisde, oggi dirige l’ufficio sicurezza del comune di Roma. Il secondo, anche lui del Ros, è un ufficiale di grande esperienza, molto noto negli ambienti dell’Arma. La procura di Palermo li accusa di un reato infamante: favoreggiamento dell’ex primula rossa di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Secondo la Procura, Mori e Obinu avrebbero omesso di catturarlo benché fossero stati informati dal colonnello Riccio della sua presenza a un summit che si tenne il 31 ottobre del 1995 in località Mezzojuso, trenta chilometri a sud di Palermo. La notizia era stata data al colonnello Riccio - che è il principale testimone dell’accusa - da Luigi Ilardo, un uomo d’onore della famiglia nissena deiMadonia che all’inizio del 1994 aveva deciso di collaborare con la giustizia ed era diventato un infiltrato «sotto copertura». Agiva, cioè, per conto dello Stato. Il colonnello aveva subito riferito l’informazione a Mori il quale - è questa una delle più gravi accuse specifiche contro l’ex capo del Ros - «non mi permise di usare un segnalatore da mettere addosso a Ilardo in modo tale da scoprire dove si teneva il summit e arrestare Provenzano ». Questi i fatti di cui si discute nel «processo nascosto ». Fatti gravissimi che costituiscono un capitolo della storia mai chiarita del cosiddetto «papello », la trattativa tra Stato e Cosa Nostra. infatti a quella trattativa che Riccio allude quando parla del «compito ben preciso» di Provenzano. Ma i temi più scabrosi sono altri ancora. Ed è là che probabilmente va cercata la causa dell’occultamento mediatico di questo processo: i rapporti tra Cosa Nostra e Marcello Dell’Utri, senatore di Forza Italia, uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consiglio. Ilardo ne parlò poco dopo l’avvio della sua collaborazione - cominciata nel gennaio del 1994 sotto il nome di copertura ”Oriente” -ma, sostiene Riccio, questa categoria di confidenze fu subito messa da parte. Accantonata. E fu Mario Mori, all’epoca colonnello, a chiederlo. Di certo, il 10 maggio del 1996, alla vigilia del suo ingresso nel programma di protezione, Luigi Ilardo fu assassinato. Un colpo micidiale per la lotta contro Cosa Nostra. L’infiltrato aveva già dato ampia prova di essere affidabile. I suoi racconti avevano tra l’altro permesso la decapitazione dei vertici mafiosi delle province di Catania, Caltanissetta e Agrigento. Inoltre aveva fotografato in diretta l’organigramma di Cosa nostra dopo l’arresto di Riina, permettendo l’individuazione dei favoreggiatori della latitanza di Provenzano. Aveva persino iniziato a scambiare con lui alcune lettere, i famosi pizzini. stato infatti Ilardo il primo a parlare dell’efficientemezzo di comunicazione del padrino.Per il colonnello Riccio la morte del "suo" infiltrato fu la conferma definitiva che Cosa Nostra aveva la possibilità di conoscere le mosse degli investigatori. Doveva esserci stata una fuga di notizie dall’interno. Solo una decina di persone sapevano di Ilardo. Queste considerazioni si sommarono al disappunto per il mancato arresto di Provenzano. Riccio decise di informare la magistratura. Scrisse un rapporto che venne inviato alle procure di Palermo, Catania,Caltanissetta eMessina. Le indagini non furono sviluppate. Non accadde nulla. Anzi qualcosa di importante successe. Ma allo stesso colonnello Riccio. Il 7 giugno 1997 fu arrestato assieme ai suoi più stretti collaboratori per una brutta storia di droga. La procura di Genova lo accusò di aver gestito illegalmente alcune infiltrazioni nei cartelli del narcotraffico. Una strana storia: per alcune di quelle operazioni Riccio era stato insignito della medaglia al valore della DEA americana e aveva ricevuto ben tre encomi. Tornato in libertà, Riccio riprese, ancora con maggior convinzione e rabbiadi prima, a segnalare le confidenze ricevute da Ilardo. Nel 1998 i giudici di Firenze lo sentirono a proposito delle stragi del ’93 e della trattativa intercorsa nel 1992 tra Vito Ciancimino e Mario Mori. Poco dopo, la Procura di Catania mise nero su bianco i suoi dubbi sul generaleMori e sull’operato dei Ros. Quindi Riccio fu chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri. In quell’occasione, per la prima volta parlò in pubblico di tentativi volti a tenere fuori i politici dalle inchieste: «L’ avvocato Taormina mi chiese di affermare che Ilardo non aveva mai fatto il nome di Dell’Utri come persona vicina alla mafia». Respinse l’invitoma, sostiene, ricevette altre pesanti pressioni. Il 31 ottobre del 2001 ripetè i suoi racconti alla procura di Palermo. Il generale Mori reagì con una denuncia per calunnia. I giudici, però, credettero alla versione del colonnello e il 14 aprile ottennero il rinvio a giudizio per Mori e Obinu. Siamo a oggi. Al processo nascosto.

Il generale Morimi disse di non citare nel mio rapporto i nomi di tutti i politici, tra questi c’era anche Marcello Dell’Utri: una persona importante, molto vicina ai nostri ambienti. Se lo metto, pensai, succede il finimondo». questa una delle dichiarazioni più pesanti fatte ieri davanti al tribunale di Palermo dal colonnello Michele Riccio, l’uomo che riuscì a infiltrare nel cuore di Cosa Nostra il mafioso Luigi Ilardo. Pur senza ancora nominare Dell’Utri, Riccio aveva cominciato a rivelare le parti più scabrose delle confidenze di Ilardo fin dal 1996. «Tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose nel territorio nazionale - scrisse in un rapporto - avrebbero dovuto votare Forza Italia. I vertici palermitani avevano stabilito un contatto con un esponente insospettabile di alto livello appartenente all’entourage di Berlusconi. In cambio Cosa Nostra si aspettava leggi a favore degli inquisiti e coperture per gli interessi economici». Chi era quel politico vicino a Berlusconi? Riccio qualche sospetto lo ebbe subito. Infatti, ha spiegato, chiese esplicitamente a Ilardo se si trattasse di Dell’Utri. La risposta fu: «Ma se lei le cose le sa, cheme le chiede a fare?». Non lomise per iscritto, e non solo per le pressioni dei superiori. Glielo chiese in modo esplicito l’infiltrato: «Ilardo - ha spiegato in aula - voleva fare le sue dichiarazioni a proposito dei politici direttamente ai giudici. Ufficialmente non era ancora un pentito e temeva che, se avesse fatto qualche nome pesante, avrebbe potuto rischiare la vita a causa di talpe istituzionali ». Cosa che puntualmente accadde: il 10maggio 1996, a Catania, due killer mai identificati lo uccisero. Così, nel processo in corso, è stato a Riccio a parlare delmondo politico. Estendendo il discorso ai rapporti dello stesso suo ex superiore: «In un’occasione - ha testimoniato - vidi un piatto d’argento eMorimi disse che gli era stato regalato da Cesare Previti«. Ma, tra i fatti nuovi emersi nel processo, quello forse più imbarazzante per il generaleMori è connesso ai rapporti di suo fratello col gruppo Fininvest. Una storia vecchia e complicata. Era emersa per la prima volta nel corso delle indagini sui cosiddetti "mandanti esterni" delle stragi mafiose, procedimento poi archiviato nel quale erano indagati Berlusconi eDell’Utri. In uno dei rapporti effettuati nel corso delle indagini, laDirezione investigativa antimafia parlava di un’azienda, la ”CO.GE Spa”, della quale erano titolari due imprenditori coinvolti in affari di mafia,Filippo Salamone e Giovanni Miccichè. La stessa azienda, sottolineava ancora il rapporto della Dia, all’inizio degli anni Novanta era controllata dalla ”Paolo Berlusconi Finanziaria Spa” e, tra i soci, c’era tale Giorgio Mori. Chi era costui? Mori ha sempre smentito che fosse suo parente. L’ha fatto sulla base di argomento in apparenza inoppugnabile: suo fratello si chiama Alberto e non Giorgio. Circostanza, questa, che sembrava aver chiuso definitivamente la questione. Invece, nel processo in corso, il colonnello Riccio l’ha clamorosamente riaperta. Ha detto infatti di aver saputo da una fonte autorevolissima (Giancarlo Foscale, prima amministratore delegato della Standa, poi vicepresidente della Fininvest) che il fratello di MarioMori lavorava per l’azienda leader del gruppo Berlusconi.Non più un problema di nomi, dunque, ma un fatto sostanziale. Solo ieri il generale Mori ha ammesso che in effetti suo fratello Alberto, dunquequello vero, ha lavorato per la Fininvest, anche se solo fino al 1991. Sel’avesse dettospontaneamente, la questione si sarebbe chiarita subito per quello che, con tutta probabilità è: un errore materiale sul nome. Il fatto è che il generaleMori vuole tenere l’ambiente berlusconiano, e in particolare Dell’Utri, il più lontano possibile dalla sua persona. Era lui il capo del Sisde quando, nel 2002, il servizio segreto civile diffuse un rapporto che, a sorpresa, collocava dell’Utri e Previti tra le potenziali vittime di Cosa Nostra: questo perché, «al di là dell’effettivo coinvolgimento in affari di mafia» i due eranopercepiticome’mascariati”, cioè compromessi, e quindi nondifendibili presso l’opinione pubblica. Una testimonianza pesantissima. La descrizione dell’unico incontro tra Ilardo e il generale Mori fa rabbrividire. Secondo il colonnello Riccio, il mafioso infiltrato disse al capo del Ros dei carabinieri queste parole: «Certe cose che avvengono in Sicilia non sono Cosa Nostra ma sono poste in essere dalle istituzioni e voi lo sapete». Adesso quella frase, che Mori smentisce di aver mai sentito, è sotto la lente d’ingrandimento della magistratura. Ilardo non può più spiegarla. Ma forse aveva ragione Provenzano quando in un pizzino scriveva «Ci sono uomini che fanno più danno da morti che da vivi».