Francesca Paci, La stampa 10/1/2009, 10 gennaio 2009
LA RETE SOTTERRANEA DI RIFORNIMENTO
Quattro mesi fa Abu Said era un uomo felice. Niente a che vedere con l’anno precedente, quando nel pieno della faida tra Hamas e Fatah riusciva a guadagnare anche 150 mila dollari al giorno contrabbandando Kalashnikov e lanciarazzi Rpg. Ma, seppur ridimensionato, il business del tunnel che s’era scavato sotto il confine egiziano continuava a rendere abbastanza da mantenere un’impresa di 12 persone tra operai, mediatori, trasportatori. E’ tutto finito, dice al telefono da Khan Younis, al sud della Striscia di Gaza: «I bombardamenti hanno distrutto un terzo dei tunnel, nessuno scende più. La gallina dalle uova d’oro è morta».
Il primo obiettivo dell’operazione «Piombo Fuso» lanciata dall’esercito israeliano il 27 dicembre scorso è fermare il lancio dei razzi sulle città del Negev, ribadisce Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs. Il secondo, «il più importante», la fine del traffico di armi: «Tra il 2005 e il 2006, quando Hamas ha preso il potere, l’arsenale di Gaza è lievitato da 179 a 946 missili, una minaccia intollerabile per la sicurezza israeliana». Dall’inizio dell’offensiva il premier israeliano Olmert ripete il mantra nazionale: «Il nostro risultato dev’essere il blocco effettivo dell’Asse Filadelfi». La via della guerra.
Fucili, mine, proiettili che in gergo vengono chiamati in arabo «bizer», semi. Il corridoio che separa Gaza dall’Egitto è un andirivieni di munizioni inimmaginabile persino per la libanese valle della Beqaa negli anni ’70. «Hamas ha impiegato gli ultimi sei mesi, quelli della cosidetta tregua, per importare 80 tonnellate di esplosivo» calcola Mattehw Levitt, direttore dello Stein Program on Counterterrorism del Washington Institute e autore del saggio «The money trail: finding, following and freezing terrorist finances».
la guerre comme à la guerre. E però, nella Striscia assediata dal 2007, quando Israele e l’Egitto risposero al golpe di Hamas serrando tutti i valichi e costringendo alla chiusura la maggior parte delle 3900 aziende di Gaza, i tunnel sono diventati molto più d’un grande mercato bellico, il duty free della sopravvivenza per un milione e mezzo di persone dipendenti in buona parte dagli aiuti internazionali dove comprare capre, cioccolata, grano, l’ambitissimo viagra e le poderose motociclette cromate cinesi Antewes con cui decine di palestinesi non particolarmente avvezzi hanno sfidato gli sterrati locali uscendone spesso e volentieri ammaccati. Khaled Abu Saleh ha fatto passare da lì la sua futura sposa egiziana.
«Due terzi dei prodotti venduti a Gaza provengono dai tunnel in cui lavorano 12 mila persone» nota l’economista palestinese Omar Shaban. Un giro d’affari sotterraneo da 650 milioni di dollari l’anno che, secondo una ricerca del quotidiano israeliano Ynet ha letteralmente «mantenuto» i 18 mila abitanti di Rafah, la città sulla frontiera egiziana dove tra il 2007 e il 2008 la disoccupazione è scesa dal 50 al 20 per cento.
«A Rafah sono l’unico che non ha mai usato i tunnel e mi ritrovo ugualmente senza casa né negozio», racconta Assad Asana, 25 anni, macellaio da tre generazioni. Urla nel microfono del cellulare per coprire i bombardamenti che continuano a martellare i quartieri a ridosso del confine, Tel Zareb, Al Abur, Brazil dove con la famiglia di trenta persone divideva una palazzina a tre piani ridotta in macerie. Assad è convinto che i raid andranno avanti fino all’ultimo tunnel: «Ne ho contati diciannove in mezz’ora».
Oggi per Israele il nemico è questa rete sotterranea che si dipana nel raggio di 4 chilometri a ridosso del Sinai. Abu Said la conosce palmo a palmo: «Ho scavato il primo tunnel nell’84, avevo 15 anni. Al principio portavamo solo oro e medicine, nel 2000 sono arrivate le armi e il commercio è decollato, la guerra è un business meraviglioso». Sotto la gestione Hamas, rivela l’intelligence israeliana, la ragnatela si è estesa fino a comprendere 500 gallerie lunghe dai 400 ai 900 metri.
«Non esiste soluzione politica ai tunnel, dobbiamo tornare a controllare il terreno con sismografi e radar» sostiene Uzi Dayan, vicecapo di Stato Maggiore noto anche come «mister sicurezza». Nel 2005, prima del ritiro, Israele teneva d’occhio una striscia di 70 metri. Ora c’è Hamas, l’Egitto e, in mezzo, il far west.
La strada è lunga. «Se riusciremo a smantellare la rete del contrabbando a Rafah, la comunità internazionale farà forti pressioni per la riapertura dei valichi» osserva Martin Kramer, analista dell’Adelson Institute for Strategic Studies di Gerusalemme. Chiusa la via della guerra, chiuso il duty free della sopravvivenza. «Per la prima volta vediamo la fame a Gaza» fa sapere da New York Karen Abu Zayd, responsabile dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei palestinesi. Ieri Nima Burdeini, casalinga di Rafah, ha cucinato per gli 11 figli purè di pomodori: «Lo hanno mangiato con il cucchiaino».
Come uscire dal labirinto dei tunnel? I mediatori lavorano a un piano che tenga conto dell’indigenza degli uni e della richiesta di sicurezza degli altri. L’Autorità Palestinese, avversaria di Hamas, gradirebbe la presenza di osservatori internazionali a condizione che non s’impiccino troppo, un po’ come gli inviati Unifil in Libano. Dal fronte israeliano rispondono con l’idea di un canale pieno d’acqua scavato sotto il confine per la modica cifra di 250 milioni di dollari. Ipotesi creative ma troppo costose avverte Efraim Inbar, direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies all’università Bar-Ilan di Tel Aviv: «L’unica chance è convincere l’Egitto ad agire contro i propri contrabbandieri».
A Rafah, il vecchio Abu Sufian non si arrende, aspetta che i bombardamenti finiscano per recuperare i suoi quattro tunnel: «S’illudono. Ripartiremo da capo, dovessimo scavare sotto il mare».