L’India che recupera i crediti di zio Sam di Frederic Robin, la Stampa, 10/1/2009, 10 gennaio 2009
L’INDIA CHE RECUPERA I CREDITI DI ZIO SAM
Dopo tre squilli qualcuno ha sollevato la cornetta. «Hallo Phil, come va oggi?». Phil è un americano dell’Ovest, un consumatore coperto di debiti. Chi lo chiama, dall’altro capo del mondo, è un giovane indiano di 25 anni, Mayank, rannicchiato nella sua postazione nella grande sala dove ronzano strani suoni: «Hallo Margaret, come va oggi?». «Hallo Peter, come va oggi?». «Hallo Maria, come va oggi?». Mayank ha l’aspetto rilassato - jeans, scarpe da ginnastica, camicia a righe gialle e blu - e parla con un accento americano impeccabile. Si fa chiamare Mike e Phil sembra proprio prenderlo per un compatriota. Con voce suadente, molto studiata, Mayank-Mike si informa sull’umore di Phil e intanto guarda lo schermo del computer, dove scorrono tutti i dati finanziari del suo interlocutore: debiti, rimborsi, redditi.
Phil non paga i suoi conti da parecchio tempo. Ha un debito di quasi mille dollari su una carta di credito. Mayank-Mike gli chiede come intenda saldarlo. «Ho fatto un primo versamento giovedì scorso», gli risponde Phil. «Magnifico, verificheremo, ci risentiamo la settimana prossima», conclude Mayant-Mike.
Dislocati sui cinque piani della sede di Encore Capital Group - nel cuore della città nuova di Gurgaon, alla periferia di New Delhi, dove gli edifici scintillanti dell’India emergente spuntano da cantieri ancora incompiuti - ci sono circa 400 giovani indiani, quasi tutti con meno di trent’anni. Encore Capital Group-India è la filiale di una società americana di recupero crediti domiciliata a San Diego (California).
Mentre molti call center, soprattutto quelli legati al sistema finanziario americano, soffrono la crisi, i cacciatori di debiti come Encore Capital Group prosperano. «Forse è triste a dirsi, ma il momento per noi è eccitante», confessa Manu Rikkye, il direttore delle operazioni indiane di Encore Capital Group.
La società madre di San Diego ha comprato a poco prezzo mucchi di fatture non pagate ai creditori più diversi, soprattutto emittenti di carte di credito. Adesso tocca a lei - specializzata nel segmento dei debiti di lungo periodo, da 12 mesi a 7 anni - recuperare queste somme, le «sue» somme.
«Sono qua per aiutarvi». Quante volte Mayank-Mike ha pronunciato questa formula melliflua? Non lo sa più. A ogni telefonata, ovviamente. Perché questa è la consegna: mostrarsi affabili, benevoli, pieni di sollecitudine. Si è ben lontani dallo stereotipo dell’ufficiale giudiziario rude e minaccioso. «Storicamente il nostro mestiere soffre di cattiva immagine - sottolinea Manu Rikkye - Eravamo quelli che assillavano brutalmente i cattivi pagatori. Il nostro metodo invece è radicalmente diverso. L’idea è quella di stringere un’alleanza con i debitori, offrendo soluzioni anziché colpevolizzarli».
Metodo efficace, più che filantropico: il consumatore, messo a suo agio, finisce per fare un gesto, e sblocca un versamente, anche minimo. Invischiato nella sua disperazione, si era irrigidito nel rifiuto ma di fronte a un consigliere che gli offre amabilmente un’alternativa - «Perché non versare 25 dollari al mese?» - può lasciarsi convincere. E per l’abile «consigliere» che ha strappato un rimborso, è tutto guadagno.
Gli agenti indiani di Encore Capital Group sono pagati a risultato. Possono triplicare, addirittura quadruplicare, il salario fisso che va da 15 mila a 20 mila rupie al mese, l’equivalente di 232-308 euro. Ma per arrivare lì, quanta ingratitudine, quanti sforzi vani, quante chiamate che squillano a vuoto o finiscono nelle segreterie telefoniche. Dalle sei di sera - per via del fuso orario con gli Stati Uniti - alle tre del mattino, un agente fa mediamente cinquecento chiamate, ma gli riesce un contatto ogni 5-7 debitori.
La conversazione può essere tanto secca quanto breve. Dawa - indiana di Darjeeling che si presenta come Debbie - non se ne risente più. Ieri sera era finalmente riuscita a localizzare Maggie. Dopo il rituale: «Hallo Maggie, come va?», ha proseguito: «Possiamo immaginare una soluzione?». «In questo momento non posso fare niente, sono in una grave crisi», ha risposto Maggie prima di riagganciare. Dawa-Debbie ha continuato a masticare il suo chewing-gum, impassibile, prima di comporre un altro numero.
A volte la pazienza paga. «Bisogna lasciare che la gente esploda - spiega Himesh Justa, uno dei quadri del call center -. E’ il primo passo prima di annodare un rapporto di fiducia». Nel corso degli scambi, possono nascere delle sincere amicizie telefoniche. Vishal, tutto vestito di jean, ha conquistato la fiducia di uno dei suoi debitori - un fattorino -, ascoltandolo: gran chiacchierone, innamorato della società indiana, si era profondamente emozionato per la storia di una ragazzina di Calcutta uccisa da un compagno di classe al quale si era rifiutata di cedere il suo iPod».
Nitim Gandhi è arrivato a discutere di Dio e della Bibbia con una delle sue interlocutrici che, dopo una crisi di pianto, si era aperta sul senso della vita. «Mi ha raccomandato di leggere «90 minuti in paradiso» di Don Piper, un libro sull’esperienza provvisoria della morte - racconta Nitim -. L’ho comprato e l’ho amato».
Questi giovani indiani non escono indenni dal contatto quotidiano con l’America decaduta, da questo tuffo nelle acque torbide dell’Occidente consumista. Ecco l’avanguardia di un Sud tionfante, chino al capezzale del Nord malato, intento a offrigli soluzioni finanziarie e conforto psicologico. Non li prenderà la tentazione di un’ironia beffarda?
«L’indebitamento è diventato universale, non è confinato agli Stati Uniti - relativizza Vishal -. Anche in India molta gente è presa alla gola». «E’ una generazione cresciuta nell’influenza occidentale - decodifica Rikkye -. Questi giovani provano dell’empatia per i consumatori americani indebitati. Vivono un modello di consumo equiparabile - appartamenti, macchine, vacanze - e sanno benissimo che potrebbero cadere nelle stesse difficoltà, in caso di un incidente economico». I call center, crogiolo insospettato del villaggio globale, crocevia dove Nord e Sud si parlano più di quanto non tacciano.