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 2009  gennaio 10 Sabato calendario

L’ incrociatore che per cinque giorni, poco prima di Natale, i cubani hanno osservato curiosi dal marciapiedi del Malecón – qualcuno anche sbracciandosi per salutarlo – prende il nome dall’ammiraglio Chabanenko

L’ incrociatore che per cinque giorni, poco prima di Natale, i cubani hanno osservato curiosi dal marciapiedi del Malecón – qualcuno anche sbracciandosi per salutarlo – prende il nome dall’ammiraglio Chabanenko. Russo. La prima nave da guerra a varcare il canale di Panama dai tempi dell’Unione Sovietica. La prima a ormeggiare in acque caraibiche dalla crisi dei missili del ’62. Brezza di una nuova Guerra Fredda? Che sia un segnale agli Usa, ai bordi delle loro coste, meno di 150 chilometri più a Nord, sono in molti a sostenerlo. Da Mosca dicono che il primo ministro Vladimir Putin (più lui che il presidente Dmitrij Medvedev) abbia reagito con «irritazione quasi personale» a quelle che considera «provocazioni » dell’Amministrazione Bush: l’insistenza nell’allargamento a Est della Nato (in particolare, infastidisce molto l’ipotesi di un ingresso di Georgia e Ucraina), l’accordo per lo scudo spaziale in Polonia e Repubblica Ceca, e – ultima goccia – il sostegno a Tbilisi nella crisi ad agosto in Ossezia del Sud. La reazione di Mosca è stata una flessione di muscoli in quello che Kissinger definì il «cortile di casa» degli Stati Uniti: esercitazioni militari congiunte con il Venezuela a fine novembre guidate dall’incrociatore nucleare Pietro Il Grande; tre navi russe a solcare il Mar dei Caraibi la vigilia di Natale. Con un corredo di sorridenti foto in coppia con vari leader sudamericani (tra tutte, la «presidenta» argentina Cristina Kirchner che a Mosca esibisce un cappello di volpe argentata, regalo di Medvedev suggerito da Chávez); e con il líder máximo eterno, Fidel Castro, che riappare nonostante la malattia (e la cessione dei poteri al fratello Raúl) per farsi eccezionalmente ritrarre all’inaugurazione della Cattedrale ortodossa russa all’Avana. Risposta scenografica al «vecchio » George W., messaggio al futuro presidente. «Mosca sta dicendo a Obama che se segue quello che considera il comportamento provocatorio del predecessore ci saranno conseguenze», sostiene Jeff Markoff, del Council of Foreign Relations, in un’intervista al Los Angeles Times. Quali conseguenze? Non che Washington sembri particolarmente preoccupata. «Stanno solo facendo ricreazione », è stato il commento della segretario di Stato (ancora per poco) Condoleezza Rice al passaggio dei russi al largo dell’Avana. I segnali di un nuovo interesse strategico dell’ex Urss in America Latina sono numerosi, a partire dalla recente «tournée» (fine novembre) di Medvedev tra Perù, Brasile, Venezuela e Cuba. Ma quasi nessuno crede davvero che sia la vigilia di una nuova Guerra Fredda. Più che altro, sembra una questione di rubli. «Le grandi mosse geopolitiche della Russia di oggi sono sempre connesse a interessi finanziari privati – spiega al telefono da Washington l’economista Moisés Naím, già ministro del Commercio nel Venezuela pre-Chávez, da molti anni direttore della rivista Foreign Policy ”: la recente espansione della Russia in America Latina è motivata dalla ricerca di clienti per l’esportazione delle armi. Tutto il resto, al fondo, è un ornamento di questa motivazione centrale ». Una presenza militare permanente dei russi in terra latinoamericana sembra un’ipotesi improbabile. «A lungo termine avrebbe costi proibitivi e un ricavo incerto », conclude Naím. Lo stesso Putin l’ha chiarito nel suo discorso fiume all’indomani dell’insediamento di Obama: Mosca non intende creare basi navali nell’emisfero occidentale. Né i partner latinoamericani hanno voglia di replicare lo schema bipolare della Guerra Fredda. A vederlo da Sud, il riavvicinamento russo (dopo la pausa conseguente al crollo dell’Urss) viene visto come uno dei segnali di un più generale «aggiustamento» del mappamondo geopolitico. Così Edgardo Lander, celebre sociologo venezuelano, studioso (polemico) della globalizzazione, bolivarista (ma critico): «Oramai l’egemonia degli Stati Uniti è messa in discussione – spiega ”: la crescita di Cina, India e Brasile, il crollo del prezzo del petrolio, la crisi economica, tutto fa parte di un lento processo di riequilibrio dei rapporti di forza sul terreno economico, finanziario, tecnologico... L’egemonia Usa ormai è solo militare (un primato ancora indiscusso) e culturale (attraverso soprattutto il cinema di Hollywood e le tv satellitari). Negli altri campi c’è una situazione in evoluzione, che si definirà nei prossimi anni». Da questa prospettiva, non sono solo Putin-Medvedev a cercare di entrare. Sono gli stessi latinoamericani che stanno sperimentando una nuova autonomia dal Nord e cercano «alleati» da accogliere. «Quando anni fa Chávez tentò di rinnovare la flotta aerea, in particolare i caccia F-16 – continua Lander – si trovò di fronte il "no" degli Stati Uniti, che fino ad allora erano stati i principali fornitori degli equipaggiamenti militari venezuelani ». Anche da Brasile e Spagna la vendita era bloccata perché i velivoli erano assemblati con componenti made in Usa. «Chávez va dunque a cercare nel mercato internazionale e incontra Mosca». Che lo trasforma nel più importante dei nuovi clienti: 4,4 miliardi di dollari spesi in armi russe tra il 2005 e il 2007. Un miliardo negli accordi appena siglati. Più che la nostalgia per la rivoluzione cubana o sandinista, i ricordi condivisi con gli ex guerriglieri nei Paesi andini, o la simpatia per i nuovi líderes emergenti, il ritorno della Russia nel cortile degli Usa risponde al richiamo di un varco che si è ora aperto. «Uno spazio lasciato libero dagli Stati Uniti (con il tramonto definitivo della dottrina Monroe) e verso il quale l’Europa ha avuto troppi tentennamenti (Paesi nordici esclusi)»: una fonte sudamericana in un importante organismo economico internazionale lo spiega così. «Non è tanto un interesse della Russia – continua l’esperto (che preferisce restare anonimo) ”. La crisi economica crea uno spazio per la cooperazione tra Paesi emergenti. E la condizione per negoziare nuove relazioni». Non è molto distante da quanto ha sostenuto il presidente brasiliano Inácio «Lula» da Silva all’ultimo vertice delle grandi economie emergenti (il Bric, Brasile, Russia, India e Cina): «La crisi, nata nei Paesi ricchi, è un’opportunità per i Paesi emergenti, responsabili del 60 per cento della crescita mondiale». In questo contesto, l’America Latina sarebbe particolarmente attraente perché «abbiamo dimostrato di avere un’economia più sana (rispetto a Stati Uniti ed Europa, ndr), che ha imparato dagli errori del passato», aggiunge la fonte dell’organismo internazionale. E poi certo perché ha importanti risorse. Non è un caso che susciti il forte interesse, meno ostentato ma molto concreto, dei cinesi. Se la Russia vende armi e fa accordi soprattutto nel settore dell’energia e delle tecnologie, Pechino viene in America Latina per prodotti come la soia (in gran parte transgenica). «L’enorme crescita economica della Cina – spiega ancora lo studioso venezuelano Lander – ha generato una domanda straordinaria di materie prime, che Pechino cerca in Africa (minerali, energia) e in America Latina (soprattutto agricoltura)». In un documento ottenuto dal Corriere, datato fine 2008, per la prima volta il governo cinese individua apertamente nel Sud del Continente americano un obiettivo strategico: « una parte importante del mondo in via di sviluppo, offre nuove opportunità ». Da cogliere. Il risultato è a molti zeri: se il volume di affari cinesi in Sudamerica nel 2000 arrivava a 10 miliardi di dollari, nel 2007 superava i 103 miliardi, con la promessa di aumentare e aumentare ancora. Materiale abbondante per il prossimo capitolo. Alessandra Coppola DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MOSCA – Vladimir Semago, uno degli imprenditori russi che maggiormente conoscono l’America Latina, milionario, ex deputato e vicepresidente del Consiglio di Affari russo- venezuelano, non ha dubbi. Le iniziative del Cremlino sul continente americano equivalgono a quello che nella marina napoletana si chiamava «fare ammuina». Scena, bluff, teatrino per conto di Hugo Chávez, Fidel Castro e degli altri leader che vogliono dare un po’ fastidio agli Stati Uniti. Ma nulla di concreto. Eppure il presidente Medvedev ha appena detto che la presenza russa non è un elemento temporaneo: «I nostri interessi prioritari sono in Europa e in Asia. La decisione di muoversi in America non è strategica, ma emotiva, dettata solo dalla situazione dei rapporti con gli Stati Uniti. Tra di loro concludono contratti: Cuba ne ha firmati trecento in un solo giorno con il Venezuela. E noi abbiamo girato per sei mesi a vuoto il Sud America con il vicepremier Sechin senza cavare un ragno dal buco ». C’è l’accordo per un consorzio petrolifero tra la compagnia statale venezuelana e cinque società russe, tra le quali Gazprom e Rosneft. «Un progetto dispendiosissimo e in questo momento nessuno ha soldi da investire. E poi a noi danno solo il 49% e in queste condizioni mi dice quale impresa è disposta a investire tanto senza controllare la gestione?». E le vendite d’armi della Rosoboronexport? «Io ci ho passato sei anni in quell’area, le cose le conosco. Non abbiamo nulla da fare lì. La questione delle armi, poi, è strutturata in base al vecchio schema sovietico: noi gli diamo i soldi e loro comprano le nostre armi». Dal punto di vista strategico, però, una presenza in America Latina ha importanza. «Guardi, sono io che a giugno ho fatto sapere a Putin che Chávez era pronto a creare una Unione Difensiva e che pensava di chiedere alla Russia di aderire come osservatore. Sechin e il segretario del Consiglio di Sicurezza Patrushev invece sono andati in Argentina e hanno annunciato che la Russia era disposta ad entrare. In questo modo s’è persa ogni possibilità di usare questa opzione come strumento tattico. Il potenziale ci sarebbe, ma ci manca la capacità tecnica e professionale di gestire la questione. Sechin non è un professionista in questo campo. Lui è bravo a organizzare confische, come quella della Yukos (l’ esproprio della compagnia petrolifera del magnate Khodorkovskij finito in galera, n.d.r.). Quella della Yukos è stata un’operazione brillante; in passato gli avrebbe fruttato la medaglia di eroe dell’Urss». La Russia si doveva muovere prima in America Latina? «Certo, adesso diamo solo l’occasione a Chavez di fare il teatrino. Visite, qualche nave qua e là. Solo un provinciale della profonda Siberia può credere che siamo rinati come potenza politica e militare. Ripeto, ci sono solo gli "amigo Dmitrij" e "amigo Vladimir". Ci usano come spauracchio». Sbandierare l’amicizia con il Venezuela può essere utile alla Russia. «Ma dove? Quando è venuto a Mosca, Chavez ha subito organizzato di andare il giorno prima in Bielorussia e il giorno dopo in Iran. Così ci ha infilato in un terzetto di Stati reietti. Bella mossa». Giovedì scorso Medvedev ha parlato con Ortega del progetto di scavare un nuovo canale di Panama in Nicaragua. «Ma sa quanto verrebbe a costare? Noi russi diciamo: l’idea è buona ma non ha senso. La manodopera chi la fornirebbe? Nicaraguensi con la zappa? E i futuri clienti? Solo noi russi oppure pensiamo che tutti abbandoneranno Panama e si butteranno nel nuovo canale? Quello che mi preoccupa è la totale assenza di professionalità: gente che cerca di imparare a governare alle nostre spalle. Se vogliamo costruire un polo alternativo, dobbiamo guardare all’Asia Centrale, al Kazakhstan, all’Uzbekistan. Sono Paesi vicini e con loro abbiamo legami storici». Fabrizio Dragosei