Sandro Cappelleto per La Stampa del 29/12/2008, 29 dicembre 2008
MUSICA COLTA IN CHIAVE LEGGERE. DIETRO LA RISSA UGHI-ALLEVI LA NASCITA DI UN GENERE
Le critiche rivolte da Uto UGHI al pianista Giovanni ALLEVI (La Stampa del 24), riprese da molti giornali, diventate un blog in Internet, oggetto di non sempre pacifiche discussioni natalizie, si possono riassumere in una: la musica che lui suona e’ troppo semplice, priva di complessita’ e dunque di vera bellezza per poterla definire «classica». Bisogna allora ricordare la vera scala dei valori, mandata in frantumi dalla banalita’ predominante, vincente anche tra i nostri politici di professione, colpevoli di avere invitato questo «nano del pianoforte» in Senato per il concerto di Natale. Ieri, con una lettera aperta a UGHI sempre sulla Stampa, ALLEVI si e’ chiesto: «Perche’ tanto veleno? La mia e’ una musica nuova perche’ contiene quella sensibilita’ dell’oggi che nessun musicista del passato poteva immaginare». Diceva Italo Calvino che, quando un autore pubblica un libro, questo non appartiene piu’ a lui, ma al pubblico che lo legge, lo boccia o lo promuove. Non parleremmo di ALLEVI se il pubblico non gli avesse decretato un crescente successo, promosso anche da immagini, dichiarazioni, libri del pianista-compositore-direttore (YouTube testimonia quanto la sua bacchetta sia ancora insicura), segnati da dosi non indifferenti di autoglorificazione che lo portano a definirsi «genio rinascimentale». La ragione prima del successo di ALLEVI, che nel 2009 compira’ 40 anni, e’ nel suo colmare la distanza che ancor oggi separa buona parte del pubblico dei concerti dalla frequentazione con la musica classica. Lui offre un «classico facile», leggero, che non intimorisce, non richiede particolari rituali di fruizione, non induce emozioni profonde: nel periodo barocco i tedeschi battezzarono il genere «Tafelmusik», musica da tavola, indicandone alla perfezione la funzione e i limiti. Un sottofondo, nella rilassatezza del Lounge. Questa tendenza e’ da anni un fenomeno internazionale. In Italia, trova i suoi esponenti di spicco nel canto di Andrea Bocelli, nelle ultime composizioni di Ludovico Einaudi, sensibili all’incontro tra musiche provenienti da diverse tradizioni folkloriche, nel pianismo di Stefano Bollani, di caratura comunque considerevole e dove brilla la tradizione jazz. Il violinista inglese Nigel Kennedy alterna il rock alle Quattro stagioni di Vivaldi, mentre il belloccio tedesco David Garrett - che si definisce «in parte virtuoso, in parte genio» - annuncia il proprio nuovo cd come «una rivisitazione in chiave strumentale del repertorio classico e rock»: Puccini, la colonna sonora di Zorba il greco, Summertime, per un cocktail imbevibile o imperdibile, dipende dai gusti. Lo stesso recente disco in cui Placido Domingo canta alcune poesie scritte da Giovanni Paolo II scorre lungo questo flusso: molti acuti, un’orchestra carezzevole, assenza di ogni approfondimento del testo. Il mezzosoprano gallese Katherine Jenkins si propone come un Bocelli al femminile: i suoi dischi hanno venduto 4 milioni di copie, alternando arie d’opera (tra cui una scipita «Habanera» dalla Carmen), folksong, inni, canzoni. Canto, pianoforte e violino: tre luoghi simbolicamente alti della tradizione classica diventano un territorio aperto: un’area Schengen della musica, dove nessuno chiede passaporti. E’ il forte investimento promozionale a fare oggi la differenza: il crossover e’ sempre esistito - basti pensare alle melodie popolari trasformate da Mozart, Beethoven, Schubert, Mahler - fino a quando la tradizione classica ha potuto contare su un proprio vasto pubblico, una tradizione familiare, un interlocutore politico consapevole. Condizioni minime di sopravvivenza che oggi non sono garantite e che stanno inducendo, negli artisti italiani piu’ responsabili, una reazione: s’intensifica il lavoro con e nelle scuole, nascono orchestre giovanili, si offrono concerti a prezzi promozionali. Lo sfogo di UGHI diventa cosi’ un appello: a recuperare quella credibilita’ che vicende poco trasparenti e malissimo gestite - come la sempre rinviata riforma dei teatri d’opera - hanno compromesso.