Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  gennaio 08 Giovedì calendario

GAZA, LO STATO CHE POTEVA ESSERE


Non è di gran conforto, di fronte alla morte a Gaza di arabi palestinesi e di israeliani (arabi musulmani e cristiani, drusi e beduini, come anche ebrei, non dimentichiamolo, ad Ashdod e Sderot), rendersi conto che il momento della carneficina è stato determinato dalla coincidenza di tre momenti elettorali particolari. Il primo, e più evidente, è l’interregno nella presidenza degli Stati Uniti, la cui classe politica non si esporrà più di tanto, mentre si stanno stabilendo gli ultimi avamposti e si riassesta il difficile equilibrio di un simultaneo sostegno ai governanti israeliani, egiziani e palestinesi. Benny Morris, uno dei commentatori israeliani più lucidi, aveva detto che Israele avrebbe usato il periodo di transizione tra Bush e Obama per colpire i siti nucleari iraniani. Per ora si è forse sbagliato, ma in effetti l’attacco contro Gaza e Hamas è solo una versione ridotta e per interposta persona della guerra a cui lui pensava.
La seconda coincidenza è quella delle prossime elezioni di febbraio in Israele. Fino alla scorsa settimana veniva considerato molto probabile un ritorno alla ribalta di Benjamin Netanyahu, l’uomo la cui linea dura contro le concessioni territoriali trovava conferma nel fatto che Gaza, da cui gli israeliani sono usciti da tempo, venisse usata come base per estemporanei lanci di missili. Ora sembra difficile che possa battere l’attuale coalizione di governo, almeno attestandosi sulle posizioni dei falchi della destra. (Ricordiamoci che la follia della cosiddetta «intifada di Al-Aqsa», che in passato causò la perdita di tante vite e di tanto tempo, fu innescata da una rivalità elettorale tra Netanyahu e Ariel Sharon, che si mostrò più duro del primo attraversando la Spianata del Tempio con una massiccia scorta militare. Per queste assurdità i bambini piangono in strada sui corpi straziati dei genitori - e viceversa).
La terza circostanza, di cui si è parlato meno, è che in questo mese per iniziativa di Mahmoud Abbas dovrebbero essere indette – se non effettivamente tenute – nuove elezioni per l’Autorità Palestinese. Prima dell’inizio dell’anno alcuni palestinesi ben informati mi dicevano che ad Hamas conveniva che le elezioni non si tenessero troppo presto. Le condizioni di vita nella Gaza islamica non erano tali da diffondere grande felicità e prosperità tra la popolazione: come molti altri movimenti fondamentalisti, l’incarnazione palestinese dei Fratelli Musulmani aveva largamente sovrastimato la sua forza. Probabilmente non sapremo cosa sarebbe accaduto a seguito di libere elezioni, ma penso si possa dire che gli eventi recenti hanno ulteriormente allontanato la possibilità di un’alternativa democratica e laica tra i palestinesi.
Credo peraltro che in Israele, oltre che a Gaza, ci sia chi non vuole veder emergere una forza del genere: ma non fatemi passare per cinico.
 per questo, quindi, che il conflitto si è verificato ora. Ogni quadro dei particolari è però un riflesso del quadro generale, che a sua volta fa pensare che se a Gaza la guerra non fosse scoppiata ora, sarebbe scoppiata in seguito. Ancora una volta ci è d’aiuto l’opera di Morris, uno dei più lucidi storici «revisionisti » della fondazione di Israele, che ha esplorato a fondo gli archivi del suo Paese per dimostrare che nel 1947-48 i palestinesi erano stati vittime di una pulizia etnica deliberata. Morris è abituato a guardare in faccia fatti spiacevoli. Nell’editoriale che ha scritto il 29 dicembre sul New York Times, ha parlato non tanto dei fatti visti da lui, quanto di quel che vedono gli israeliani quando guardano fuori e dentro il loro Paese. A nord, i missili di Hezbollah con il sostegno della Siria e dell’Iran: due dittature, una delle quali potrebbe presto possedere armi nucleari e i mezzi per lanciarle. A sud e a ovest, Hamas a Gaza. Nei territori occupati della Cisgiordania, ancora il vecchio governo coloniale malvisto dalla popolazione e il vecchio incontrollabile conflitto con gli insediamenti degli ebrei messianici. All’interno di Israele, una crescente tendenza degli arabi israeliani a considerarsi arabi o palestinesi, anziché israeliani. Tutto questo è accompagnato da un semplice dato demografico: la legge israeliana e il potere israeliano governano cittadini sempre più non ebrei, e sempre meno disposti al compromesso.
Rispetto alla minaccia posta alla sua esistenza nel 1967, scrive Morris, ora Israele si trova in una posizione migliore solo grazie all’arrivo di altri 2-3 milioni di israeliani e al fatto di possedere un arsenale nucleare. Ma questi fattori quanto possono essere rassicuranti? Dove possono andare i nuovi immigrati, se non in terre contese? E su chi dovrebbero essere lanciate le armi nucleari? Su Gaza? A Hebron? Questi luoghi continuerebbero a essere là, a ridosso della comunità ebraica, anche se Damasco e Teheran fossero ridotte in cenere. Solo i messianici potrebbero ancora contemplare una prospettiva del genere (e purtroppo in Israele ce ne sono molti). Di fronte a questa intricata concatenazione di circostanze, e con alcuni spaventosi errori che ne sono scaturiti – come l’ultima invasione del Libano – alcuni politici israeliani sembrano pensare che adottare una linea dura a Gaza possa aiutare a risollevare il morale, almeno nel breve termine. Allora perché non dire chiaramente che si lanciano bombe per avere voti?
 solo quando si cominciano ad afferrare tutti i precedenti che si capisce quanto sia disgustoso e squallido il comportamento della banda di Hamas. Essa sa molto bene che le sanzioni colpiscono tutti i cittadini palestinesi, ma – proprio come il regime di Saddam in Iraq – rifiuta di abbandonare la violenza indiscriminata e la demagogia razzista e religiosa che sono state il principale motivo delle sanzioni. La Palestina è patria di diversi gruppi religiosi e nazionali, ma Hamas insiste dogmaticamente nel sostenere che l’intero territorio fa parte di un futuro impero esclusivamente musulmano. In un momento in cui nella regione si osservano tendenze riformiste e democratiche, dal Libano al Golfo, la leadership di Hamas è fisicamente ed economicamente parte dell’entourage di due delle peggiori dittature della zona. (Se volete ridere, andate a guardare quegli intellettuali occidentali che credono che il voto per un partito islamista e uno Stato islamico sia un modo per votare contro la corruzione! Non hanno probabilmente studiato l’evoluzione dell’Iran e dell’Arabia Saudita). Gaza avrebbe potuto essere la prefigurazione di un futuro stato palestinese auto-determinato. stata, invece, sequestrata dai Fratelli Musulmani e resa un luogo di repressione per i suoi abitanti e di violenza contro i suoi vicini. Prevale ancora una volta il Partito di Dio. Se si legge Benny Morris si può dubitare che lo Stato di Israele avrebbe mai dovuto nascere, ma se si vede Hamas all’opera vien da pensare che se qualcos’altro dovesse sostituire o seguire il sionismo, non dovrebbe essere la desolazione della teocrazia islamica.