Se il giornale lo fa l’ufficio marketng di Giancarlo Galli, l’Avvenire, 8/1/2009, 8 gennaio 2009
SE IL GIORNALE LO FA L’UFFICIO MARKETING
L’ editoria sta attraversando nel mondo una crisi senza precedenti. Un po’ ovunque la carta stampata sta vivendo ore difficili. In Usa, financo il New York Times, fondato nel 1851, per far quadrare i bilanci, ha ipotecato la propria sede, nel cuore di Manhattan. Solo il crollo del mercato immobiliare ha allungato i tempi della dismissione. Dopo la « diversificazione elettronica » , non avendo dato i risultati sperati, si licenzia. Idem per il Los Angeles Times. A Natale, incontrandomi come faccio da anni, a Nizza, con colleghi europei, i francesi ( abitualmente altezzosi), mettevano sul tavolo il travaglio che si sta vivendo al paludato Le Monde, e al battagliero e antigovernativo
Liberation, che fra l’altro ha subito un duro colpo con la morte di Carlo Caracciolo, propostosi quale editore del « rilancio » . Lacrimanti pure gli spagnoli: i quotidiani iberici registrando una paurosa disaffezione dei lettori.
Non dissimili gli italici scenari. Qualche giorno fa, negli ambienti degli « addetti ai lavori » , ha fatto notevole impressione la nota diffusa dal comitato di redazione del Corriere della Sera. Si denuncia lo strapotere del marketing, un azionariato di controllo frantumato e tenuto assieme da interessi ( finanziari, politici, di equilibri di potere nell’establishment), che poco hanno da spartire con un’editoria «pura», il cui principale scopo dovrebbe essere il servizio al lettore. In forma trasparente, andando al nocciolo dei problemi, senza guardare in faccia a nessuno. Sebbene le statistiche siano in ritardo nel registrarlo, anche in Italia la diffusione cala: dapprima i periodici, poi i quotidiani. Da cercare col lanternino, un gruppo editoriale che da Torino a Milano a Roma non vada predisponendo una «riorganizzazione», con relativi tagli. Pane al pane: meno pagine, meno redattori, meno inviati speciali, cancellazione di molti dei privilegi accordati ai giornalisti. Non è casuale che il rinnovo del contratto dei giornalisti attenda da quattro anni. A nulla sono servite le giornate di sciopero. Gli editori intendono avere mani libere, e l’ormai ansimante corporazione pare avere le armi spuntate.
un cattivo segno dei tempi, la crisi dell’informazione. Mettendo nel mazzo pure quella televisiva, con rare eccezioni stucchevole. Infatti, alle notizie e alle inchieste si preferiscono le « opinioni » , distribuite col bilancino: cariche istituzionali, maggioranza, opposizione, imprenditori, sindacati. Una passerella di battute, spesso banali, che inducono a cambiare canale. Personalmente ritengo che non poche siano le responsabilità della categoria cui appartengo, da mezzo secolo. Non che fossero rose e fiori negli anni Cinquanta, però! Quando nell’aprile del 1956 venni assunto da praticante al Giorno di Gaetano Bal- dacci, il direttore fece un discorsetto molto semplice: lei cerca le notizie, le verifica non al telefono ma scarpinando, e diffidi di tutti, soprattutto degli uffici stampa. Una volta, il gran banchiere Enrico Cuccia mi regalò una battuta: « Le pubbliche relazioni servono a rendere le relazioni il meno pubbliche possibile » . Il giornalismo insomma non doveva avere intermediari fra i fatti e la notizia stampata. Ancora Baldacci, ricordo, tracciava un frego su dichiarazioni che superavano le dieci righe. Aveva in odio le interviste: « il giornalista che deve saper cogliere l’essenziale di chi parla, altrimenti basta un registratore! Le interviste servono solo all’intervistato...
» . Tempi superati, certo. I giornali si sono ampliati fisicamente a dismisura, ma i contenuti? Una nuova generazione di editori, «impuri » perché legati ad altri e ben più lucrosi affari, dalle banche all’industria all’immobiliare, ha messo le mani sulle rotative. In troppi casi si racconta quel che a loro piace venga raccontato; a magnificare le loro gesta, o talvolta a stendere cortine fumogene. Depistando. Vale per l’economia, per il costume ( pensiamo alla moda), e anche alla politica. Il giornalismo d’inchiesta ha ampiamente ceduto il passo al giornalismo molto spesso « pilotato » dagli uffici stampa, dai press- agent, dai guru delle pubbliche relazioni. Migliaia, ormai, dai palazzi romani alle aziende. Un giornalismo condizionato dal marketing. Che significa pubblicità. Nell’Anteguerra, e ancora nell’immediato Dopoguerra, la carta stampata si reggeva sulle vendite; ora tutto dipende dalla pubblicità. Va da sé che il «contenitore» si adegui. Forse siamo in presenza di una degenerazione ( anche etica) tipica di questa fase storica: una caduta della deontologia. I politici che perso il contatto con la gente, si preoccupano ( con metastasi clientelare), unicamente della perennità delle loro poltrone; i banchieri che si ritengono al di sopra di ogni legge e sfidando persino i postulati dell’economia, sono abbarbicati ai loro privilegi autoreferenziali; gli imprenditori che si sono trasformati in speculatori dimenticando le fabbriche, il lavoro, l’economia reale. E noi giornalisti? Senza batter ciglio, abbiamo creduto di poter partecipare, accontentandoci di briciole, al gran banchetto di un capitalismo impazzito, drogato. Avremmo dovuto, invece, essere i « cani da guardia » ; ma ci ha fatto purtroppo spesso assai comodo smussare i denti. O ringhiare a comando. Pensavamo che i lettori non se ne sarebbero accorti? In mancanza della fiducia di chi ci legge o ci vede alla tv, il giornalismo non ha spazi. Ce n’è invece a dismisura per i « gazzettieri » . però altrettanto vero che senza una libera stampa una società è cieca. Alla mercé di ogni sorta di propaganda. Questi giorni di crisi globale, devono dunque servire per la riflessione. Aiutarci a tornare « cani da guardia » . Mastini, se necessario. Liberandoci da quel fra l’altro non più dorato guinzaglio che ci legava al marketing, al politicamente complice, alla devozione nei confronti di editori che molto spesso lo sono solo di facciata.