Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  gennaio 08 Giovedì calendario

SE IL GIORNALE LO FA L’UFFICIO MARKETING


L’ editoria sta attraversan­do nel mondo una crisi senza precedenti. Un po’ ovunque la carta stampata sta vi­vendo ore difficili. In Usa, finan­co il New York Times, fondato nel 1851, per far quadrare i bilanci, ha ipotecato la propria sede, nel cuo­re di Manhattan. Solo il crollo del mercato immobiliare ha allunga­to i tempi della dismissione. Do­po la « diversificazione elettroni­ca » , non avendo dato i risultati sperati, si licenzia. Idem per il Los Angeles Times. A Natale, incon­trandomi come faccio da anni, a Nizza, con colleghi europei, i fran­cesi ( abitualmente altezzosi), mettevano sul tavolo il travaglio che si sta vivendo al paludato Le Monde, e al battagliero e antigo­vernativo
Liberation, che fra l’al­tro ha subito un duro colpo con la morte di Carlo Caracciolo, pro­postosi quale editore del « rilan­cio » . Lacrimanti pure gli spagno­li: i quotidiani iberici registrando una paurosa disaffezione dei let­tori.
Non dissimili gli italici scenari. Qualche giorno fa, negli ambien­ti degli « addetti ai lavori » , ha fat­to notevole impressione la nota diffusa dal comitato di redazione del Corriere della Sera. Si denun­cia lo strapotere del marketing, un azionariato di controllo frantu­mato e tenuto assieme da inte­ressi ( finanziari, politici, di equi­libri di potere nell’establishment), che poco hanno da spar­tire con un’editoria «pura», il cui principale scopo do­vrebbe essere il servizio al lettore. In forma traspa­rente, andando al noccio­lo dei problemi, senza guardare in faccia a nes­suno. Sebbene le statisti­che siano in ritardo nel re­gistrarlo, anche in Italia la diffusione cala: dapprima i perio­dici, poi i quotidiani. Da cercare col lanternino, un gruppo edito­riale che da Torino a Milano a Ro­ma non vada predisponendo una «riorganizzazione», con relativi ta­gli. Pane al pane: meno pagine, meno redattori, meno inviati spe­ciali, cancellazione di molti dei privilegi accordati ai giornalisti. Non è casuale che il rinnovo del contratto dei giornalisti attenda da quattro anni. A nulla sono ser­vite le giornate di sciopero. Gli e­ditori intendono avere mani libe­re, e l’ormai ansimante corpora­zione pare avere le armi spunta­te.
un cattivo segno dei tempi, la crisi dell’informazione. Mettendo nel mazzo pure quella televisiva, con rare eccezioni stucchevole. Infatti, alle notizie e alle inchieste si preferiscono le « opinioni » , di­stribuite col bilancino: cariche i­stituzionali, maggioranza, oppo­sizione, imprenditori, sindacati. Una passerella di battute, spesso banali, che inducono a cambiare canale. Personalmente ritengo che non poche siano le responsa­bilità della categoria cui appar­tengo, da mezzo secolo. Non che fossero rose e fiori negli anni Cin­quanta, però! Quando nell’aprile del 1956 venni assunto da prati­cante al Giorno di Gaetano Bal- dacci, il direttore fece un discor­setto molto semplice: lei cerca le notizie, le verifica non al telefono ma scarpinando, e diffidi di tutti, soprattutto degli uffici stampa. U­na volta, il gran banchiere Enrico Cuccia mi regalò una battuta: « Le pubbliche relazioni servono a ren­dere le relazioni il meno pubbli­che possibile » . Il giornalismo in­somma non doveva avere inter­mediari fra i fatti e la notizia stam­pata. Ancora Baldacci, ricordo, tracciava un frego su dichiarazio­ni che superavano le dieci righe. Aveva in odio le interviste: « il giornalista che deve saper coglie­re l’essenziale di chi parla, altri­menti basta un registratore! Le in­terviste servono solo all’intervi­stato...
» . Tempi superati, certo. I giornali si sono ampliati fisicamente a di­smisura, ma i contenuti? Una nuova generazione di editori, «im­puri » perché legati ad altri e ben più lucrosi affari, dalle banche al­l’industria all’immobiliare, ha messo le mani sulle rotative. In troppi casi si racconta quel che a loro piace venga raccontato; a ma­gnificare le loro gesta, o talvolta a stendere cortine fumogene. De­pistando. Vale per l’economia, per il costume ( pensiamo alla moda), e anche alla politica. Il giornali­smo d’inchiesta ha ampiamente ceduto il passo al giornalismo molto spesso « pilotato » dagli uf­fici stampa, dai press- agent, dai guru delle pubbliche relazioni. Migliaia, ormai, dai palazzi roma­ni alle aziende. Un giornalismo condizionato dal marketing. Che significa pubblicità. Nell’Ante­guerra, e ancora nell’immediato Dopoguerra, la carta stampata si reggeva sulle vendite; ora tutto di­pende dalla pubblicità. Va da sé che il «contenitore» si adegui. For­se siamo in presenza di una de­generazione ( anche etica) tipica di questa fase storica: una caduta della deontologia. I politici che perso il contatto con la gente, si preoccupano ( con metastasi clientelare), unicamente della pe­rennità delle loro poltrone; i ban­chieri che si ritengono al di sopra di ogni legge e sfidando persino i postulati dell’economia, sono ab­barbicati ai loro privilegi autore­ferenziali; gli imprenditori che si sono trasformati in speculatori di­menticando le fabbriche, il lavo­ro, l’economia reale. E noi giornalisti? Senza batter ci­glio, abbiamo creduto di poter partecipare, accontentandoci di briciole, al gran banchetto di un capitalismo impazzito, drogato. Avremmo dovuto, invece, essere i « cani da guardia » ; ma ci ha fatto purtroppo spesso assai comodo smussare i denti. O ringhiare a co­mando. Pensavamo che i lettori non se ne sarebbero accorti? In mancanza della fiducia di chi ci legge o ci vede alla tv, il giornali­smo non ha spazi. Ce n’è invece a dismisura per i « gazzettieri » . però altrettanto vero che senza u­na libera stampa una società è cie­ca. Alla mercé di ogni sorta di pro­paganda. Questi giorni di crisi glo­bale, devono dunque servire per la riflessione. Aiutarci a tornare « ca­ni da guardia » . Mastini, se neces­sario. Liberandoci da quel fra l’al­tro non più dorato guinzaglio che ci legava al marketing, al politica­mente complice, alla devozione nei confronti di editori che molto spesso lo sono solo di facciata.