Francesca Marretta per Liberazione di martedì 6 gennaio 2009, 6 gennaio 2009
VIAGGIO TRA I BEDUINI DEL NEGEV DOVE DAL CIELO PIOVONO RAZZI
Per raggiungere Tel Sheva, nel deserto del Negev, si attraversa un lungo viale con le palme da cui si vedono due minareti che si distinguono dai tetti bianchi, bassi e squadrati delle cue. Non è un’oasi. un villaggio creato nel 1982, nell’ambito di un progetto dei governo israeliano per la rilocalizzazione dei beduini, a cinque chilometri da Be’ersheva, la principale città del Negev. Le strade sono sporche ma asfaltate. Il vento solleva cumuli di polvere e terriccio e le abitazioni basse di cemento sono tutt’altro che attraenti. Alcune sembrano villette monofamiliari, ma ci vivono generalmente famiglie allargate. Si incontrano bambini ad ogni angolo di strada. Due bimbe dagli occhi grandi tirano un carretto con la frutta. Avranno una decina di anni a testa. Altri giocano. Un gruppetto insegue un pavone che riesce a sfuggirgli con un goffo colpo d’ali oltre un cancello. Le donne che incontriamo per strada sono tutte col capo velato. I beduini del Negev hanno passaporto israeliano, ma tra di loro parlano in arabo. Sono una popolazione nomade musulmana sedentarizzata e rappresentano intorno al sette per cento della popolazione araba di Israele. A dfferenza dei palestinesi con passaporto israeliano, i beduini possono, come i drusi, entrare nell’esercito (Idf). In Israele vivono circa quindicimila palestinesi di Gaza (dove risiedono anche diverse comunità beduine). I Gazani sono concentrati sopratutto m questa zona. A Tel Sheva ce ne sono tre che portano un cognome celebre e scomodo: Haniyeh. Sono le sorelle del Primo ministro de facto di Hamas a Gaza. Due sono più anziane del leader del movimento islamico, la terza è più giovane. Hanno cittadinanza israeliana. Sono approdate nel Negev anni fa avendo sposato beduini della famiglia Abu-Rakik, una delle più influenti della comunità. Due ora sono vedove, la terza, Khaldia, vive con marito figli e nipoti alla casa numero 287, nella zona 8 di Tel Sheva. Una casa benestante rispetto a molte altre in questo villaggio. Oltrepassato il cancello d’ingresso a casa di Khaldia Abu Rakik sorella di Haniyeh, ci viene incontro un signore cieco col bastone, che tiene in mano una ragazzina dagli occhi azzurri. Propno come quelli dei leader di Hamas a Gaza. la nipotina della sorella di Haniyeh. Il nonno, che la tiene per mano è dunque il cognato del leader di Hamas. «Non vogliamo parlare di parenti a Gaza. Non è buona pubblicitá per noi. Per favore lasciateci stare. Sianw buoni cittadini israeliani», dice il sig. Abu-Rakik dietro gli occhiali neri. Lo salutiamo eproseguiamo il giro nel villaggio. In una strada vicina incontriamo Salah Abu Hamra, 46 anni, ex militare nell’unità dei beduini. «Sono stato nell’esercito israeliano per 17 anni» racconta Salah. «Ho lavorato lungo il confine con Gaza ed in Giordania. Non ho paura dei razzi, ma tanti in questa zona sono spaventati. A Tel Sheva non ne abbiamo avuti, ma a Be’ersheva la gente è dovuta scappare nei rifugi. Tutti sono colpevoli per questa situazione. Sia Israele, sia Hamas. Spero che si arrivi al più presto al cessate il fuoco», continua. Salah aggiunge infine che molti nella zona hanno famiglia a Gaza e sono in pena. «E’ molto difficile avere contatti. Le linee funzionano poco e male. Le sorelle di Haniyeh? Bravissime persone, sempre gentili e molto rispettate. Ma non credo siamo orgogliose del fratello». Intorno a noi si è fonnato intanto un piccolo gruppo di curiosi. Uno dice: «Lo sai perchè il marito di Khaldia è diventato cieco? Perchè non può vedere Haniyeh» e ridono.
Mentre lasciamo il villaggio, attraversandolo per tomare a Be’ersheva, ci vengono in mente statistiche che dicono che in questa parte del paese il reddito medio risulta dimezzato rispetto alla media nazionale (secondo il Fondo monetario internazionale nel 2007 il reddito medio pro capite giomaliero in Israele era circa 150 dollari). Non ci vuole molto a capire che a Tel Sheva la maggior parte della popolazione vive di sussidi di disoccupazione. Del resto nella vicinissima Be’ersheva la fonte di occupazione prevalente è l’impiego pubblico presso la municipalità, l’esercito e l’ospedale. Nella zona vi sono anche industrie farmaceutiche, chimiche ed elettroniche. Ma il tasso di scolarizzazione tra i beduini e gli ebrei sefarditi della zona è nettemente inferiore rispetto al resto del paese.
Nei giomi scorsi Be’ersheva è stata raggiunta da razzi Katiusha rinforzati provenienti da Gaza, modello Grad, di fabbricazione cinese. Ieri pomeriggio ne sono caduti due. Hanno una gittata di circa quaranta chilometri. Nessuno qui era preparato ai razzi da Gaza, né il gorverno israeliano, né la popolazione. E non ci sono sirene come a Sderot e Ashkelon. Di conseguenza sono state trovate in fretta soluzioni alternative. E’ stata attivata una frequenza radio che resta muta tutto il tempo, tranne quando scatta l’allarme razzo e trasmette il suono della sirena. Altra soluzione è stata un canale televisivo che trasmette il segnale d’allarme. A Beersheva e dintorni molti rifugi sono collettivi. All’ingresso di un «mahase», il bunker collettivo, nel quartiere Gimmel troviamo un gruppo di donne che hanno sistemato sedie presso lìingresso del rifugio che scompare sottoterra dopo due rampe di scale, circondate da bambini e ragazzini fino ai quindici anni. Michal, ebrea sefardita di 34 anni, ha ancora addosso il pigiama. Tiene la figlia di due anni in braccio. Normalmente si occupa di assistenza agli anziani, ma in questi giomi si muove da casa solo per spostarsi qui al rifugio. «Grazie e Dio, da quando è cominciata l’operazione di terra sono diminuiti i razzi. Ma che ne sai se ne tirano di nuovo uno all’improvviso? Spero che li fermino, non m’importa se muore la gente di Gaza. Hamas deve smetterla». La donna ci accompagna a vedere il rifugio. Nelle stanze illuminate da lampadine sono appoggiati per terra, un po’ ovunque materassi e cuscini. C’è un frigorifero e si vedono in giro bottighe di cocacola e altre bevande. I ragazzi hanno riempito le pareti di scritte e disegni. «Ci stiamo anche in cinquanta» spiega Michal. «Ma non c’è il bagno, quindi se abbiamo bisogno la notte dobbiamo uscire. 0 tomiamo a casa o la facciamo per strada». Tornando su, verso l’uscita, notiamo la presenza degli stessi soldati che abbiamo incontrato arrivando al rifugio. «Siamo fissi qui» dice Ruslan 33 anni, russo di origine come il commilitone Dima, 35. «Facciamo da sirena. Qui non c’è. Ci chiamano dal comando e noi diamo l’allarme a queste famiglie».
In un’altra e più sviluppata zona della città c’è l’ospedale Soroka. Qui vengono portati i soldati feriti nell’operazione Piombo Fuso. Ce ne sono diverse decine ricoverati al momento. Alcuni sono feriti gravemente. Arrivano con una sorta di ambulanza militare di colore marrone. I militari che accompagnano i commihtoni feriti tolgono i caricatori dalle armi prima di entrare nella struttura ospedaliera. Un soldato ferito alla testa mentre entra in ospedale si gira verso di noi e dice: «Il morale è alto».