Jennifer Lee, Carla Buckley per il New York Times, pubblicato su Repubblica di martedì 6 gen 2009, 7 gennaio 2009
ABORTO, MIX DI FARMACI FA TREMARE GLI USA
NEW YORK - Amalia Dominguez aveva 18 anni, era disperata ma sapeva esattamente che cosa chiedere nella piccola farmacia a gestione famigliare di Washington Heights, la prosperosa enclave dominicana nella parte settentrionale di Manhattan. «Ho bisogno di farmi venire il ciclo» ricorda di aver detto in spagnolo, utilizzando un eufemismo immediatamente interpretato dal farmacista. L’ episodio risale a 12 anni fa, ma il ricordo sopravvive fresco nella sua mente: il farmacista le porse una confezione di pillole, bianche e piccole, una dozzina per trenta dollari. Dominguez, incinta di due o tre mesi, si recò nell’ appartamento di un’ amica e buttò giù tutte le pillole, una dopo l’ altra, sorseggiando la malta, un estratto simile alla melassa che si vende in ogni drogheria del quartiere. I crampi ebbero inizio qualche ora più tardi, fecero piegare Dominguez in due dal dolore, aumentarono sempre più e alla fine, otto ore e mezza dopo, lei si chiuse in bagno e abortì un feto senza vita. Poi tirò lo sciacquone del gabinetto. Le pillole erano misoprostol, un farmaco da somministrare con ricetta approvato dalla Food and Drug Administration per ridurre le ulcere gastriche e che secondo i ricercatori è comunemente utilizzato, per quanto illegalmente, nelle comunità dominicane per procurare l’ aborto. Due nuovi studi realizzati da istituti che si occupano di salute della riproduzione, lasciano ora intuire che l’ uso improprio di simili farmaci sia soltanto uno di una miriade di metodi - comprese discutibili pozioni fatte in casa - utilizzati frequentemente nel tentativo di porre fine a gravidanze di donne appartenenti a culture fortemente contrarie all’ aborto, malgrado l’ ampia possibilità di scelta di sistemi e metodi d’ aborto sicuri, legali ed economici in ambulatori e ospedali. Il primo studio ha seguito 1.200 donne, per buona parte originarie dell’ America Latina, residenti a New York, Boston e San Francisco. Il secondo studio, condotto da Planned Parenthood, ha coinvolto una serie di focus group di 32 donne dominicane residenti a New York e Santo Domingo. Complessivamente, le ricerche hanno appurato che le donne in stato di gravidanza mescolano bevande al malto con aspirina, sale o noce moscata; si gettano giù da rampe di scale; si fanno prendere a pugni sul ventre, bevono infusi di foglie di avocado, legno di pino, corteccia di quercia e buccia di ippocastano. Vari colloqui e interviste con esponenti della comunità e donne di Washington Heights hanno confermato queste scoperte e rivelato altri sistemi ancora meno convenzionali, per esempio il succo di jeans, un intruglio tossico ottenuto facendo bollire l’ orlo dei jeans denim. La dottoressa Carolyn Westhoff ha detto che questa tendenza rientra nell’ atteggiamento tipico dei dominicani di ricorrere più facilmente a rimedi casalinghi piuttosto che affidarsi alle cure degli ospedali, almeno in parte perché non dispongono di assicurazione, ma soprattutto perché diffidano del sistema sanitario. «La loro cultura prevede non soltanto l’ aborto auto-indotto, ma anche il fatto di andare in farmacia a procurarsi da sole ciò di cui necessitano». I ricercatori autori dello studio citano vari fattori in funzione dei quali le donne dominicane e altre immigrate tendono a sperimentare varie soluzioni per procurarsi l’ aborto clandestinamente: una certa diffidenza nei confronti del sistema sanitario, il timore di interventi chirurgici, le preoccupazioni legate alla possibile espulsione dal paese. Dominguez ha deciso di parlare affinché si conosca la trappola nella quale molte donne dominicane incinte finiscono col cadere. «Si tratta di un rischio enorme per la salute». (copyright New York Times/la Repubblica Traduzione di Anna Bissanti)