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 2009  gennaio 07 Mercoledì calendario

GAZA Nella Striscia infernale la catastrofe del Medio Oriente Sandro Viola per la Repubblica di martedì 6 gennaio 2009 Guardavo alla televisione, sere fa, un documentario sulla "battaglia d’ Inghilterra", come furono chiamati i bombardamenti aerei tedeschi su Londra durante la Seconda guerra mondiale

GAZA Nella Striscia infernale la catastrofe del Medio Oriente Sandro Viola per la Repubblica di martedì 6 gennaio 2009 Guardavo alla televisione, sere fa, un documentario sulla "battaglia d’ Inghilterra", come furono chiamati i bombardamenti aerei tedeschi su Londra durante la Seconda guerra mondiale. Erano immagini non tanto diverse da quelle dei bombardamenti israeliani su Gaza, che avevo visto poco prima nel telegiornale. Edifici sventrati, strade sconvolte, gente in lacrime. Ma conoscendo tanto Londra quanto Gaza city, una differenza, una differenza sostanziale e decisiva tra le due situazioni, mi appariva chiarissima. A Londra, una buona parte dei londinesi poté sfuggire ai bombardamenti. I bambini venivano evacuati in luoghi sicuri dell’ Oxfordshire e del Sussex, gli adulti potevano, alla chiusura degli uffici, andare a dormire in case amiche sparse nella campagna attorno alla capitale, e quelli che invece restavano a Londra trascorrevano la notte - quando si susseguivano regolari le ondate degli Stukas tedeschi - al riparo nei sotterranei della metropolitana. Una coperta, un thermos col tè, il pacchetto di sigarette. E il coraggio inglese. Ma i palestinesi di Gaza non possono mettersi in salvo, perché dalla Striscia di Gaza non è possibile uscire. I due confini, a nord con Israele e a sud con l’ Egitto, sono sbarrati. L’ unica strada che corre da un capo all’ altro della Striscia è ovunque crivellata dalle enormi buche delle esplosioni, ormai impraticabile. I bambini non possono quindi essere trasferiti in luoghi sicuri (per esempio a ridosso della frontiera egiziana, dove gli aerei evitano di bombardare), mentre gli adulti non hanno una ferrovia sotterranea o cantine con mura robuste dove rifugiarsi. Questo sinché si trattava soltanto d’ attacchi aerei: ma dal pomeriggio di sabato scorso, con i carri armati che avanzano sulle strade di Gaza city, sui fianchi dei campi profughi, lungo la riva del mare, le possibilità di sottrarsi alle bombe, alle cannonate e alla fucileria si sono ancora ridotte. In senso letterale, non figurato, Gaza è dunque una trappola. E se uno si trova dentro la trappola mentre dal cielo piovono i missili dell’ aviazione d’ Israele e da terra sparano i mitra dei "commandos", quel tale non ha vie d’ uscita. Né lui, né la moglie, né i figli. Devono restare, tremanti, raccomandandosi al loro dio che il prossimo missile non esploda troppo vicino. E non basta. La notte, con temperature che s’ avvicinano allo zero, devono dormire con le finestre aperte perché lo spostamento d’ aria delle esplosioni provocherebbe a finestre chiuse una micidiale mitraglia di vetri infranti: ferite, emorragie che nessun medico, negli ospedali dove arrivano di continuo corpi ben più straziati, si attarderebbe a curare. Era molto meglio, la vita a Gaza, prima che nella mattina di sabato 27 dicembre cominciassero i raid dell’ aviazione israeliana? Meglio sì, in quanto i suoi abitanti non rischiavano ogni giorno di morire durante una qualsiasi delle novecento azioni di bombardamento aereo che si sono susseguite in questi giorni. Ma per il resto no, non era tanto meglio. Adesso in inverno il puzzo delle fogne a cielo aperto non è terribile come col gran caldo dell’ estate, ma dai canali di scolo lungo le strade di Gaza city, di Khan Yunis, di Rafah, sale anche in inverno un tanfo asfissiante. Fogne a cielo aperto, rottami, roghi di immondizie, macerie (macerie di bombardamenti non solo israeliani ma anche della guerra tra palestinesi, Hamas contro Fatah, dell’ estate 2007), caterve d’ altre immondizie ancora da bruciare. E come mangiavano, prima dei bombardamenti, gli abitanti di Gaza? Novecentomila almeno del milione e quattrocentomila abitanti della Striscia, si nutrivano essenzialmente con la farina e il riso distribuiti dall’ Unwra, la branca dell’ Onu che assiste i rifugiati. L’ Unwra è perciò molto attiva a Gaza, essendo Gaza un universo di rifugiati. Vale a dire i palestinesi fuggiti nel ’48 dalle terre man mano occupate da Israele nella sua guerra d’ indipendenza, e restati sino ad oggi per la massima parte - con i loro altissimi tassi di natalità - nei campi profughi della Striscia. Nel campo di Jabalya, per esempio, uno dei più grandi, con una storia importante nel conflitto israelo-palestinese perché fu qui che s’ avviò nel 1987 la prima Intifada, le sassate dei ragazzi palestinesi contro i carri armati d’ Israele. Quattro o cinque anni fa, l’ ultima volta che misi piede a Jabalya, tutto era restato come nelle mie prime visite al campo. 75 mila persone ammassate in uno spazio che nel mondo civile ne conterrebbe a malapena 6-7 mila, i viottoli di terra battuta disseminati di rifiuti, immondi fogli di plastica che volteggiavano ad ogni soffio di vento, il puzzo delle immondizie, nugoli di mosche sul carretto del venditore di panini al sesamo. E in mezzo gli uffici dell’ Unwra, i sacchi di farina e di riso, gli scatoloni dei medicinali. Soprattutto di questo vivevano sino all’ estate del 2005, quando gli israeliani ancora occupavano Gaza, gli abitanti di Jabalya. Di aiuti umanitari. Solo che allora i camion dell’ Unwra entravano regolarmente dai valichi tra Israele e la Striscia, mentre dal gennaio 2006, quando Hamas vinse le elezioni, camion con farina e riso ne sono arrivati sempre meno, e negli ultimi mesi (nonostante durasse una fragile tregua tra Hamas e Israele) a Gaza ne sono entrati pochissimi. E con una disoccupazione che sfiora il 40 per cento, il che significa una miseria diffusa, si può immaginare come abbia pesato sugli abitanti il diradarsi degli aiuti Onu. Questa storia dei valichi chiusi ai camion con le derrate alimentari e i medicinali, ha poi un altro risvolto. Gli ottomila coloni ebrei che s’ erano installati nella Striscia dopo la guerra dei Sei giorni nel 1967, avevano messo su una prospera industria agricola: serre per le primizie, frutteti, coltivazione di ortaggi. Ma da quando Ariel Sharon decise d’ evacuare Gaza nel 2005, ed estirparne le colonie ebraiche, quell’ industria è andata in malora. Colpa dei palestinesi all’ inizio, che avevano distrutto molte serre in quanto simboli dell’ occupazione. Ma poi, quando anche i palestinesi erano riusciti a riprendere le coltivazioni, i loro prodotti - destinati al mercato israeliano - restavano a marcire sotto il sole dinanzi ai valichi chiusi. E visto che abbiamo parlato del 2005, qualche parola va detta sulla decisione di uscire da Gaza presa quell’ anno da Sharon. La decisione fu unilaterale, non concordata con l’ Autorità palestinese e col suo presidente Abu Mazen. Sharon non riconosceva infatti ad Abu Mazen alcun ruolo politico, e dunque non volle trattare la consegna di Gaza da parte del governo israeliano ai rappresentanti legittimamente eletti dai palestinesi. E quell’ arroganza partorì i disastri che hanno portato alla guerra di questi giorni. Il moderato Abu Mazen venne indebolito, pressoché squalificato, dal rifiuto di Sharon di riconoscerlo come un interlocutore in un passaggio cruciale come l’ uscita di Israele da Gaza. Hamas ne uscì rafforzata (infatti cinque mesi dopo vinse le elezioni parlamentari), e il blocco dei valichi, con le conseguenze che ebbe sulle condizioni di vita della popolazione, convinse i palestinesi di Gaza che la sola linea da tenere con Israele era l’ oltranzismo dei fondamentalisti. Poi Hamas cacciò dalla striscia gli uomini di Abu Mazen, Gaza diventò l’ Hamastan, un ridotto islamista alle frontiere d’ Israele, e il lancio di razzi sul Negev s’ intensificò. Le condizioni dell’ attuale catastrofe erano ormai create. Lorenzo Kamel Israele-Palestina. Due storie, una speranza Editori Riuniti 2008 Ariella Azoulay Atto di Stato. Palestina Israele, Storia fotografica dell’ occupazione Bruno Mondadori 2008 James L. Gelvin Il conflitto israelo-palestinese Einaudi 2007 Bernard Lewis La costruzione del Medio Oriente Laterza 2006 Edward Said La pace possibile Il Saggiatore 2005 Ilan Pappe Storia della Palestina moderna Einaudi 2005 Amos Oz Contro il fanatismo Feltrinelli 2004 Alain Gresh Israele, Palestina Einaudi 2004 Benny Morris Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista Rizzoli 2003 David Grossman La guerra che non si può vincere Mondadori 2003