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 2009  gennaio 05 Lunedì calendario

La Stampa, lunedì 5 gennaio 2009. Speriamo che i party sul tetto della città «continuino per altri 75 anni», augurava qualche settimana fa il «New York Post» nell’articolo di avvio delle celebrazioni per i primi tre quarti di secolo della Rainbow Room, il celeberrimo locale al 65° piano del Rockefeller Center nel cuore di MidTown a Manhattan

La Stampa, lunedì 5 gennaio 2009. Speriamo che i party sul tetto della città «continuino per altri 75 anni», augurava qualche settimana fa il «New York Post» nell’articolo di avvio delle celebrazioni per i primi tre quarti di secolo della Rainbow Room, il celeberrimo locale al 65° piano del Rockefeller Center nel cuore di MidTown a Manhattan. Ma il 2009, invece delle feste di compleanno, porterà «alla chiusura del ristorante Rainbow Grill a causa della attuale crisi economica a New York e in giro per il mondo». Le secche parole con cui John Higgins, il manager che gestisce il locale per conto della famiglia Cipriani, ha annunciato alla WNBC-Tv la decisione di chiudere l’attività principale del mitico locale (resterà aperto solo il bar), non è solo la fine di un’icona dorata della «New York da bere», ma anche, e ciò suona come il segnale più preoccupante, il ribaltamento della capacità di reazione della città alle sue sfortune. Allora, anno 1934, John Rockefeller costruì il grattacielo che porta il suo nome come sfida alla Grande Depressione e come atto di fiducia nell’America. E ci mise sul tetto una sala tutta vetri, da cui si domina a 360 gradi la Grande Mela da Harlem alla Statua della Libertà, dai ponti sull’East River alla costa del New Jersey ad Ovest. Al centro, una pista da ballo che ruota per far vivere insieme l’ebbrezza della danza e l’emozione del panorama mozzafiato. Mondanità, magnati, stelle e stelline, e presidenti, hanno tutti contribuito a costruire il mito. Se l’ottimismo americano, che è il miglior carburante della voglia di crescere e prosperare, cercava un simbolo, lo trovò nella Rainbow Room, la Stanza dell’Arcobaleno. Oggi la crisi in grigio, quella dei mutui subprime nati nei sobborghi della provincia e nei computer dei banchieri, o della squallida truffa d’alto bordo di Madoff, deprime, non stimola. E l’America così si rivolge allo stimolo dello Stato per guarire. Non allo spirito animale dei personaggi senza vergogna di apparire, industriali o politici o attori, o persino grandi mafiosi, che fossero. Il barista Sharif Magaya, maestro dei «martinis» a base di vodka e dei «Bellini» importati a New York da Venezia quando Arrigo Cipriani pensò di moltiplicare nel mondo l’esperienza del veneziano Harri’s Bar, non dimentica John Gotti. Era durante la recessione dei primi Anni Novanta, e il boss si presentò sbattendo un biglietto da 100 dollari sul bancone come mancia, prima di ordinare il suo cocktail preferito, «Cosmo», a base di succo di limone, Cointreau, Cranberry Juice e una buccia d’arancia. O quando un altro cliente aggiunse 250 dollari al conto di 21. Gli anonimi vengono ricordati per la generosità, i «grandi» perché sono passati di lì. Per esempio il principe Carlo con Lady Diana e il presidente del Sud Africa Nelson Mandela. E, tra i tanti da Hollywood, Liz Taylor e Richard Burton ai tempi splendidi della coppia. Il suggello definitivo è venuto dai presidenti, che da Jimmy Carter in poi hanno tutti (meno uno) reso omaggio al tempio dell’Alta Società: Ronald Reagan con la moglie Nancy, e poi Ford, George Bush padre e Bill Clinton. Di quest’ultimo, frequentatore piuttosto assiduo, si ricorda il parco consumo di tè ghiacciato, memorabile perché andava bene per tutte le stagioni. Ma non solo. Ha raccontato il responsabile del club Klein Brewer, che ha dato il benvenuto e accomodato tutti i presidenti, che Bill «era sempre seduto tra due signore e c’era proprio quella elettricità sessuale e quel magnetismo di cui la gente ha sempre parlato». L’unico comandante in capo che non ha mai messo piede alla Rainbow Room è stato l’attuale, George W. Bush, che pure aveva programmato il pellegrinaggio al Rockefeller Center in una delle sue visite in città. Ma il servizio segreto chiedeva che fossero installati i vetri antiproiettile a tutte le finestre che fanno da corona al salone, e il management giudicò irrealistica l’idea. Non se ne fece niente. La sfilza di personaggi vip che l’hanno animata, e la sua origine nella stagione storica più nera dell’America del Ventesimo Secolo, hanno spinto la famiglia Cipriani, nel settembre scorso, a far richiesta per la promozione della Sala dell’Arcobaleno a landmark, ossia a immobile protetto per il suo valore storico. Ciò, tra l’altro, eliminerebbe la lite che è in corso da tempo con il gestore dell’intero grattacielo, la società Tishman Speyer, che vorrebbe usare degli spazi ai piani più alti, occupati ora dalle iniziative di Cipriani, per scopi amministrativi. Non è la sola vicissitudine che ha angustiato la famiglia negli ultimi anni. Per non aver pagato le tasse in modo corretto, i Cipriani hanno dovuto pagare una multa salata e, soprattutto, hanno rischiato di perdere la licenza per servire alcolici. L’hanno spuntata con un voto di maggioranza della Commissioni Alcolici cittadina, ma il brindisi al 2009 è stato molto amaro lo stesso.