Se non salti, non scatto di Laura Leonelli, Il Sole 24 Ore, 4/1/2009, pag- 33, 4 gennaio 2009
SE NON SALTI, NON SCATTO
Li ha fatti saltare tutti, come se quella minima distanza da terra potesse svelare il mistero della celebrità. Marilyn Monroe, Richard Nixon, Salvator Dali, Grace Kelly, il Duca e la Duchessa di Windsor, tutti si sono lasciati sedurre da quella insolita proposta e lì, davanti all’obiettivo di uno dei più originali fotografi del ’900, si sono tolti le scarpe, e, uno, due, tre, sono schizzati in aria. Questione di un attimo e poi ogni corpo ritrovava la sua compostezza. Un attimo e Philipp Halsmann, l’autore di questi meravigliosi ritratti, raccolti nella categoria estetico’ginnica di "Jumpology", ricordava, nel fondo di un’anima mai placata, il salto che fece suo padre tanti anni prima, cadendo da un sentiero di montagna, nel Tirolo. Il figlio, allora ventiduenne, studente di elettrotecnica a Riga, in Lettonia, lo sentì urlare, poi un rumore sordo e infine l’immagine di un corpo senza vita, la testa tra le rocce e le gambe mosse dalla corrente del fiume. Un tragico incidente, che per una tragica coincidenza di indizi e pregiudizi, divenne nel giro di poche ore accusa di omicidio.
Ottant’anni dopo quel terribile evento e a trent’anni esatti dalla morte del grande fotografo, Martin Pollack, storico austriaco, torna negli archivi del tribunale di Innsbruck, dove venne celebrato il processo, e riemerge pubblicando un bellissimo libro, quasi un romanzo poliziesco, "Assassino del padre. Il caso del fotografo Philipp Halsmann", in uscita a fine gennaio da Boringhieri. Non solo una biografia, vibrante, ma un quadro storico drammatico che illumina l’ascesa del nazismo e dell’antisemitismo in Austria.
L’8 settembre del 1928, Morduch Halsmann, dentista di Riga, ebreo russo, parte insieme al figlio per una gita tra i monti dello Zillertal. La meta è un ghiacciaio, che i due vogliono raggiungere da soli. "Non avete l’attrezzatura giusta, è pericoloso", li informa una scalatrice più esperta.
Il padre decide allora di prendere una guida, ma sogghignando aggiunge che il figlio non sarebbe poi stato così dispiaciuto nel vederlo morire. "Ma io questo favore non glielo voglio fare". Si parte, tutto bene. Il giorno dopo, un’altra vetta, un altro rifugio e una notte tranquilla, ognuno nella sua camera "e non importa se sono matrimoniali, voglio stare per conto mio", spiega il signor Halsmann, infastidito, all’albergatore. La mattina del 10 settembre, padre e figlio escono dal rifugio. Un bambino, in lontananza, li vede litigare, "lui, il figlio - dirà al processo - agitava le braccia". Appare il sentiero per il Breitlahner, sopra il torrente Zam. E’ una mulattiera, tenuta malissimo, e già la stampa locale, qualche tempo prima, si era lamentata dell’incuria. Quindi, lincidente. Philipp corre in cerca di aiuto. E’ il solo testimone e diventerà l’unico accusato. Nella ricostruzione si confonde, "camminavo dietro mio padre, no, davanti". Poi, il reperto che lo inchioda. Tra l’erba alta, viene ritrovata una pietra sporca di sangue. I pantaloni e le unghie del ragazzo, invece, sono puliti,ma questo non conta.A provare l’odio parricida, nel Tirolo più profondo e cattolico, è la richiesta non di una bara per la sepoltura ma di un tachrichim, un sacco di tela, come vuole la tradizione ebraica.
Tre giorni dopo inizia il processo, a Innsbruck. Il verdetto, in assenza di movente e autentiche prove, è colpevole. La pena, dieci anni di carcere. Da Vienna, "la rossa", "la bolscevica" come si legge sui giornali tirolesi, si alza un’ondata di protesta. La difesa passa a Franz Pessler, anche lui ebreo, che si batte, con successo, per la riapertura del caso. Parte la raccolta firme. Tra queste, Sigmund Freud, Thomas Mann, Erich Fromm e Albert Einstein che scriverà al presidente austriaco per chiedere la grazia. Sui muri di Innsbruck, nella notte del 9 ottobre del 1929, vengono affissi manifesti con queste parole: "Cittadini, il processo Halsmann mostra a tutti coloro che vogliano vederlo il mostruoso influsso e la coesione dell’ebraismo".
Un anno dopo, il 30 settembre, finalmente giunge la grazia e l’ordine di espulsione dall’Austria. Philipp si ritroverà a Parigi e lì ricomincerà a fotografare. Gli ultimi scatti, con una macchina acquistata dal padre anni prima, risalivano a quella drammatica gita. Poi l’orrore di due anni di carcere, la libertà, la riscoperta di una passione e il nuovo lavoro. Nel 1940 Halsmann fugge di nuovo, in America. A procurargli il visto sarà Albert Einstein. E a questo punto, toccato il fondo, inizia l’ascesa. Un salto verso i massimi i livelli, proprio quando l’Europa aveva fatto il suo salto nel buio.
1Martin Pollack. «Assassino del padre. Il caso del fotografo Philipp Halsmann», Bollati Boringhieri, Torino,
pagg. 240, 22,00.