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 2009  gennaio 04 Domenica calendario

WALL STREET 2008, LA CADUTA DEGLI DEI

Indirizzo: 23 Wall Street, Downtown, Manhattan. Vista sulla Borsa di New York e sui grattacieli del Financial District. Ma "The House of Morgan", l’edificio dei primi del Novecento che per quasi un secolo è servito da quartier generale di JP Morgan, ora è un condominio griffato Philippe Starck, da 15mila dollari al metro quadro. Un ultimo, forse disperato tentativo di riconversione al residenziale per un’area votata al business finita in strutturale carenza di clienti. Comunque vada, a Wall Street e dintorni nulla sarà più lo stesso: la caduta degli dei, le "potenti" banche d’affari che decidevano i destini dei mercati e delle aziende di mezzo mondo, ha lasciato un vuoto che sarà difficile colmare.
In meno di un anno è cambiata un’epoca. Nessuna delle investment bank Usa che avevano mantenuto l’indipendenza nel processo di consolidamento è sopravvissuta nella formula che aveva dominato l’era della finanza rampante. Dal 1° gennaio Merrill Lynch è ufficialmente diventata una provincia dell’impero Bank of America; Lehman, dopo 158 anni di onorata carriera, ha chiuso i battenti; Morgan Stanley e Goldman Sachs sono state costrette a trasformarsi in banche commerciali. La crisi finanziaria ha contagiato l’economia reale, mandando in recessione il mondo occidentale. Wall Street ha archiviato il 2008 con la peggior performance dalla Grande depressione. E l’America, patria del liberismo economico, si è riscoperta improvvisamente assistenzialista.
Uno sconquasso inimmaginabile solo nove mesi fa, quando Bear Stearns, la più piccola delle cinque banche d’affari statunitensi, era precipitata nel baratro scavato nei suoi conti dagli hedge fund del gruppo esposti sui cdo ed era stata costretta a consegnarsi a JP Morgan per 10 dollari ad azione, meno di un decimo rispetto ai 130 dollari a cui viaggiava il titolo prima della crisi.
Ma si pensava che fosse una crisi isolata o comunque arginabile. «Siamo ormai alla fine della partita», avevano sentenziato ad aprile, l’uno dopo l’altro, il ceo di Morgan Stanley, John Mack, e quello di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, riferendosi alla questione dei subprime che guastava i sonni di parecchi loro colleghi. Tuttavia il loro reiterato ottimismo, dettato da un’erronea percezione del miglior stato di salute delle rispettive banche, doveva rivelarsi ben presto solo un inutile esercizio di buona volontà. Far quadrato per salvare l’autoreferenzialità del settore e spartirsi le spoglie del più debole senza chiedere aiuti esterni non era più possibile. Troppo diffusa ormai la malattia sistemica per correre ai ripari con i vecchi rimedi. Le banche avevano fatto credito a clienti per abitazioni che non potevano permettersi, gli stregoni di Wall Street avevano impacchettato i mutui in strumenti così complessi che forse nemmeno loro ne comprendevano più la ratio, le agenzie di rating ci avevano messo la faccia per garantire la bontà della lavorazione, e chi doveva controllare non lo ha fatto o lo ha fatto male. Alla fine nessuno sapeva più come uscirne, tanto meno i quattro potentati delle banche d’affari superstiti che, a partire da metà settembre, hanno dovuto fare i conti con la dura realtà.
«Finché sono in vita io, Lehman non sarà mai venduta», aveva sdegnosamente proclamato non più di un anno fa Richard Fuld, l’uomo che dal ’94 guidava la più antica delle banche d’affari di Wall Street. Ma il destino aveva riservato per lui un altro finale. In una domenica di metà settembre, dopo che anche Barclays si era tirata indietro, Fuld si era trovato costretto a pietire l’intervento di un’altra banca commerciale, la Bank of America, nel disperato tentativo di evitare la bancarotta alla creatura che aveva plasmato, trasformandola da una rispettabile ma incolore fabbrica di bond a una sfavillante stella della finanza d’alto bordo, con ramificazioni d’affari e relazioni in tutto il mondo. Non ne cavò nulla, se non l’umiliazione di qualche telefonata a vuoto a Kenneth Lewis, il presidente della banca di Charlotte, che due giorni prima gli aveva comunicato il "game over": Bank of America non avrebbe fatto nessun accordo senza il supporto del Governo federale. Che non arrivò mai, perché il Tesoro e la Fed – sottovalutando i contraccolpi di un crack da 75 miliardi di dollari – avevano ormai deciso di abbandonare Lehman al suo destino, consumatosi inevitabilmente lunedì 15 settembre, preferendo invece favorire il salvataggio in extremis della rivale Merrill Lynch. La quale, data per morta Lehman, era già entrata nel mirino della speculazione come prossima vittima designata.
Finire nell’abbraccio soffocante di Bank of America non era esattamente l’esito che John Thain aveva immaginato quando, a fine 2007, aveva deciso di accettare il posto in Merrill, lasciando la sua più stabile poltrona di chief executive officer al New York Stock Exchange. Nel nuovo incarico Thain, un ex Goldman che nel mondo degli affari si era fatto la fama di mastino, aveva esordito con i tagli al superfluo, rinunciando all’elicottero aziendale e persino ai fiori freschi che allietavano le giornate lavorative del top management, ma che costavano alla banca 200mila dollari all’anno. Il suo errore fu però quello di sottovalutare il peso di 55 miliardi di asset tossici ereditati dalla precedente gestione, pensando che, sbarazzandosene della metà, sarebbe stata sufficiente un’iniezione di capitale da 12 miliardi di dollari. Costretto nuovamente a ricorrere al mercato, solo pochi mesi dopo la prima già diluitiva operazione, Thain si ritrovò a dover negoziare la resa, nello spazio di poco più di una giornata, con la stessa controparte con cui stava trattando Lehman. Riuscendo per i suoi azionisti a spuntare un prezzo comunque superiore del 70% alle quotazioni di Borsa e per sè a conservare il posto, benché solo da comprimario.
Così alla fine la selezione della specie, dettata dalla crisi che le stesse banche d’affari avevano innescato, ha risparmiato solo due delle ex glorie di Wall Street, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Non più forti perché temprate dalle difficoltà, bensì più sofferenti per l’implosione del sistema, ma soprattutto ridimensionate nel ruolo e ferite nell’animo. Costrette a chinare il capo davanti alla Fed, la banca delle banche, alla quale avevano sempre evitato di subordinare la propria fiera, e col senno di poi irresponsabile, autonomia.