Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  gennaio 03 Sabato calendario

L’ATTACCO DI ISRAELE A GAZA

«Qualsiasi cosa Israele faccia ad Hamas, Hamas vincerà» insegnava Nizar Rayyan all’Università Islamica di Gaza, rasa al suolo da due bombardieri. «Se ci uccidono diventeremo martiri; se non ci uccidono per paura o politica, cementeranno la nostra vittoria».
Il ragionamento dello sheikh, il dottore in legge islamica ucciso l’altro ieri dagli israeliani, è ferreo. Se è condiviso, nessuna guerra israeliana sradicherà Hamas da Gaza.
Yuval Diskin, il capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni d’Israele, è convinto di no. Hamas è al collasso. I suoi dirigenti stanno cercando in tutti i modi di trovare rifugio oltre la frontiera egiziana; altri si vestono da infermieri negli ospedali o cercano riparo nelle moschee. In strada resta la povera gente. Anche i poliziotti hanno tolto la divisa per non diventare obiettivi degli elicotteri nemici, e cercano di mantenere l’ordine in abiti civili.
Un volantino che circola per le strade di Gaza, firmato Fatah, invita la gente del movimento islamico che non ha partecipato al golpe dell’estate 2007 contro il partito di Abu Mazen, a chiedere rifugio ai capi dei clan della striscia. Perché la tradizionale struttura tribale palestinese continua a essere potente a Gaza e, fedele al ricordo di Arafat, sarebbe ancora dalla parte di Fatah, il partito originale della resistenza.
In qualche modo, Hamas è un movimento rivoluzionario che ha cambiato gli equilibri di potere nella società palestinese; Fatah è la tradizione.
Nessuno può verificare quanto saldo resti il potere degli islamici a Gaza, una settimana dopo la guerra. Ai giornalisti in Israele è ancora vietato passare la frontiera e quelli della Bbc e di al-Jazeera International che sono dentro, informano con coraggio ma devono guardarsi dai bombardamenti israeliani come dalla censura del regime islamico.
Qualche giorno fa Hamas ha accusato l’Autorità palestinese di Abu Mazen di preparare il ritorno di Fatah sulle torrette dei carri armati israeliani. Ci sarebbe, secondo loro, un complotto organizzato da israeliani, egiziani, sauditi e americani per rovesciare il Governo islamico dopo la guerra. Secondo Mushir al-Masri, uno dei portavoce di Hamas, «non è un segreto che Abu Mazen sapesse in anticipo dell’attacco» israeliano.
Gli uomini di Fatah rimasti nella striscia avrebbero passato ai servizi segreti israeliani le informazioni necessarie per colpire i nascondigli di armi e gli uffici di Hamas trasferiti in zone sicure.
Il volantino che gira per Gaza accusa il movimento islamico di tenere «in ostaggio la popolazione civile in una guerra che la gente non voleva»; invita tutti i suoi simpatizzanti alla sollevazione e a tenersi pronti per la piena ripresa del potere «perché tornino la legge e l’ordine e il popolo palestinese venga difeso».
A Ramallah il partito e l’Autorità palestinese negano. Il volantino non è che una «fabbricazione». L’obiettivo del potere palestinese in Cisgiordania è solo «il dialogo e l’unità nazionale». il mantra che viene ripetuto e ciò che anche il vertice della Lega Araba di due giorni fa, al Cairo, ha chiesto ai palestinesi.
Ma le ambizioni di Fatah sono innegabili. Come dice un dirigente del partito a Ramallah, «vogliamo vedere la fine del regime brutale di Hamas. Ma questo deve essere fatto dai palestinesi, non da Israele».
 difficile capire chi stia fabbricando cosa a Gaza. Le accuse di Hamas in fondo sono credibili. Fra una settimana, il 9 gennaio, scade il mandato presidenziale di Abu Mazen e formalmente la Palestina non ha più un leader nominato dal popolo. Non sono previste nuove elezioni ma solo la continuazione «straordinaria e temporale» della presidenza Abu Mazen, a causa della situazione. Dal punto di vista legale Hamas ha diritto di dichiararla decaduta.
Il problema per l’Autorità palestinese è tenere lontana la guerra di Israele dalla sua aspirazione al ritorno a Gaza e dalla sua scelta di continuare la lotta nazionale per uno Stato attraverso il pacifico negoziato.
Obiettivamente gli interessi coincidono: gli israeliani vogliono un partner come Fatah e i palestinesi hanno bisogno che Hamas si indebolisca. Sembra un paradosso ma non lo è: questa guerra alla fine potrebbe aiutare la pace. A Febbraio Israele vota. E l’andamento per ora favorevole del conflitto sta rafforzando il Governo Kadima-Labour che vuole continuare la trattativa con i palestinesi iniziata ad Annapolis, nel summit ospitato dagli Stati Uniti; e indebolendo il Likud di Bibi Netanyahu che vuole cambiare i termini del processo di pace: cioè lo vuole congelare.
La guerra non è una scienza esatta, nessuno può stabilirne il risultato. Hamas potrebbe sopravvivere alle bombe e rafforzarsi; il suo potere diffondersi in Cisgiordania; Netanyahu vincere le elezioni israeliane; Barak Obama impegnare la presidenza americana nella crisi economica e in altre regioni del mondo, meno complicate. E il conflitto israelo-palestinese restare nel suo caos, come sempre.