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 2009  gennaio 06 Martedì calendario

la Repubblica, lunedì 5 gennaio 2009 - Gli equilibrismi del Raìs - di GUIDO RAMPOLDI E adesso, quanto può durare l’ acrobazia di Mubarak? Fino all’ altra notte gli egiziani non parevano affatto struggersi per i guai dei palestinesi o comunque accettavano l’ attendismo del governo, variamente mimetizzato

la Repubblica, lunedì 5 gennaio 2009 - Gli equilibrismi del Raìs - di GUIDO RAMPOLDI E adesso, quanto può durare l’ acrobazia di Mubarak? Fino all’ altra notte gli egiziani non parevano affatto struggersi per i guai dei palestinesi o comunque accettavano l’ attendismo del governo, variamente mimetizzato. Ma da quando è chiaro che l’ offensiva di terra israeliana potrebbe essere lunga e sanguinosa, la posizione del Raìs, e in genere dei governi arabi moderati, sta diventando spinosa. Per quanto ottantenne e piuttosto isolato dai suoi sudditi, Mubarak sembra rendersi conto che rischia di essere additato da tutto l’ estremismo arabo come un complice di Israele. Per schivare le accuse che già gli rivolgono alcune tv arabe, al momento sceglie la scorciatoia classica: alza i toni, punta l’ indice su Israele e non più su Hamas, si mostra indignato; ma nel concreto, resta immobile. Non fa nulla di ciò che gli chiede l’ opposizione. Non richiama l’ ambasciatore a Tel Aviv. Non sospende le forniture di gas a Israele. Respinge la richiesta di aprire il confine ai giornalisti affinché quello che avviene a Gaza abbia testimoni. E sulla frontiera, ieri la sua polizia aiutava l’ aviazione israeliana a distruggere le gallerie sotterranee da cui Hamas importa razzi ed esplosivo. Però nelle stesse ore un comunicato della presidenza condannava «nei termini più forti. la selvaggia aggressione» d’ Israele al territorio palestinese. E la diplomazia egiziana raddoppiava gli sforzi, finora vani, per costringere Hamas a scongiurare lo scontro all’ ultimo sangue che si profila a Gaza. Mubarak e Sarkozy ne discuteranno oggi sulla costa del mar Rosso. Cercheranno di elaborare una proposta risolutiva, o forse soltanto di perpetrare le finzioni per le quali l’ uno appare il leader di un inesistente "mondo arabo" e l’ altro il capofila di un’ inconsistente Unione europea. Al momento l’ unica proposta egiziana sul tavolo prevede la creazione di "passaggi sicuri" sulla frontiera con Gaza, per permettere l’ ingresso di aiuti umanitari. Non è molto, e certo non riabilita Mubarak agli occhi di chi lo accusa di mostrarsi debole con Israele e con gli americani. La sua potentissima polizia segreta riuscirebbe a prevenire una rivolta delle moschee e del fondamentalismo, ma le ripercussioni non mancherebbero: il jihadismo tornerebbe a sparare (e il presidente sarebbe il bersaglio grosso), le possibilità di suo figlio di succedergli precipiterebbero. Insomma, una catastrofe. Che Mubarak eviterebbe soltanto smarcandosi da Israele con gesti forti, plateali. E poiché nella sua stessa situazione si trova Abdallah, re di una Giordania piena di palestinesi (non a caso ieri Amman annunciava la possibilità di rivedere le relazioni con Israele), ora Gerusalemme rischia di alienarsi gli unici alleati che ha nella regione, sommando ad un vago successo militare un disastro politico di proporzioni spettacolari. Il pericolo maggiore per Mubarak non deriva tanto dalla forza dei Fratelli musulmani, quanto dalla loro relativa debolezza. Colpita dagli arresti, sempre nel mirino della polizia segreta, la confraternita integralista finora ha scelto una linea prudente. Al tempo della guerra nel Libano minacciò di inviare migliaia di combattenti sul campo di battaglia. Ora non soltanto evita toni belligeranti, ma si limita a manifestazioni di protesta che la polizia sbaraglia facilmente. Ma se la battaglia di Gaza si protraesse i Fratelli della generazione giovane accetterebbero a lungo la linea cauta decisa da un vertice vetusto? O una parte rifluirebbero nel terrorismo? Questa eventualità al momento è considerata dagli analisti molto più probabile di un’ insurrezione generalizzata, in grado di unire le fasce di popolazione pesantemente colpite dalla crisi economica, di cui Gaza sarebbe comunque solo il pretesto. Almeno fino a ieri quella vicenda non sembrava scaldare più di tanto l’ egiziano medio. I passanti interpellati dalla tv Al Jazeera parevano convenire che fosse saggio tenersi lontano dalla mischia israelo-palestinese. Diceva uno: «Gaza? Dovremmo lavarcene le mani». Un altro: «Tra i Paesi arabi che criticano la nostra linea pacifica non ce n’ è uno che combatterebbe Israele». Un terzo, depresso: «La nazione araba è debolissima, non può fare nulla». Altri ancora condannavano l’ inazione egiziana con ira, con disgusto, con vergogna («Se è vero che sapevamo in anticipo dell’ attacco israeliano e l’ abbiamo appoggiato, odierò per sempre il mio Paese», scrive un diciannovenne al quotidiano Daily News). Ma la novità era la flemma di un segmento vasto della società egiziana. Un Paese che nel nome dei palestinesi ha combattuto tre guerre, perso 120mila soldati e dilapidato miliardi, come ha ricordato Mubarak, assisteva ai tormenti di Gaza come se quella storia non lo riguardasse, o almeno non come prima. Era come se l’ Egitto dicesse: non ne possiamo più. Secondo il politologo Ashraf Rady, il sentimento di una certa estraneità ai palestinesi nasce anche da quanto avvenuto in febbraio, quando migliaia di abitanti di Gaza si sottrassero al blocco israeliano rompendo le barriere al confine e rovesciandosi in massa nel Sinai. L’ invasione suscitò apprensioni e colpì sfavorevolmente gli egiziani. Inoltre ha pesato il fastidio per l’ ipocrisia di quei "fratelli arabi", come il regime siriano, che da più di trent’ anni non sparano un colpo contro Israele ma accusano l’ Egitto di essere troppo accomodante. E hanno contribuito la crisi economica, che spinge ciascuno a badare al proprio particulare, e l’ apatia indotta nella società dai metodi muscolari con i quali il regime richiude gli spazi legali che anni fa aveva lasciato all’ opposizione. Per tutto questo finora Mubarak non aveva motivi per preoccuparsi. L’ offensiva terrestre complica il futuro del presidente, ora di fronte ad un’ alternativa per lui comunque funesta: se vince Hamas, si troverà ai confini un fondamentalismo trionfante, collegato ai Fratelli musulmani; se vince Israele, egli sarà considerato corresponsabile di quell’ esito. Quale che consideri il male minore, il suo spazio di manovra sembra ridotto. La dipendenza dell’ Egitto dagli aiuti americani è anche una dipendenza politica da Washington. E nei confronti del Cairo Israele può far valere una minaccia affilata: se il suo esercito aprisse varchi nella frontiera tra Gaza e l’ Egitto, una grande massa di palestinesi fuggirebbero nel Sinai, dove Hamas troverebbe un alleato naturale in alcune bellicose tribù beduine entrate nell’ orbita del jihadismo.