Guido Rampoldi, D - la Repubblica delle Donne giugno 2001, 5 gennaio 2009
Nelle scuole coraniche, da qualche tempo, i mullah più ligi al verbo dei Taliban hanno preso a interrogare così i bambini: sapete se i vostri genitori nascondono in casa un’arma, un televisore, un mangianastri? Avete motivo di denunciarli? Questi appelli alla delazione filiale rivelano una preoccupazione crescente
Nelle scuole coraniche, da qualche tempo, i mullah più ligi al verbo dei Taliban hanno preso a interrogare così i bambini: sapete se i vostri genitori nascondono in casa un’arma, un televisore, un mangianastri? Avete motivo di denunciarli? Questi appelli alla delazione filiale rivelano una preoccupazione crescente. I Taliban controllano ogni luogo pubblico, dove hanno imposto i propri costumi abbattendo sulla popolazione una gragnuola di editti e frustate; ma non sono riusciti a penetrare nell’esistenza degli afgani. Dove non arrivano i loro scudisci, lì comincia un Afganistan "privato" che si organizza con le proprie regole per sopravvivere all’occupante. Se nel Paese visibile è proibito tutto ciò che ci appare piacevole e libero, nel Paese invisibile la moralità penitenziale dei mullah è motivo di sghignazzi, l’uso di cosmetici non comprova lascivia e i televisori non appaiono uno strumento del Maligno. Così accade che il bazar di Kabul, in apparenza irreprensibile, sveli una specie di doppiofondo. Dozzine di botteghe vendono sottobanco generi proibiti. Basta chiedere e il mercante alza il lembo d’una stuoia, lasciando intavedere vecchi televisori, videocassette, perfino decoder per le trasmissioni televisive satellitari. Sono visioni sorprendenti come lo spettacolo di una ragazza col volto scoperto, per così dire nudo, che d’un tratto ti appare nei vicoli. Dopotutto il semplice possesso di una videocassetta è punito con una settimana di prigione e una dose discrezionale di frustate. Malgrado questo, alcuni avventurosi proprietari di televisori organizzano incontri cinematografici nella propria abitazione. Particolarmente gradito il Titanic in videocassetta, al punto da diffondere a Kabul una moda, il taglio di capelli "Di Caprio", che ha scandalizzato i Taliban e provocato la fustigazione di alcuni barbieri. Le fotografie che il lettore troverà in queste pagine raccontano appunto un Afganistan domestico, sottomesso ma non annesso. Per quanto poveri e dimessi siano gli ambienti, quel poco di arredamento che compare ci colpisce perché rompe l’uniformità coatta imposta agli afgani dai mullah attraverso infiniti precetti. In una società irrigimentata e in divisa (burqa per le donne, barbe e caftani per gli uomini) le case diventano così gli ultimi spazi di libertà, sia pure una libertà minuscola. Sono appunto abitazioni private ad ospitare, nelle maggiori città, centinaia di scuole clandestine che offrono alle adolescenti la possibilità di studiare. A Kabul sono note come home-schools, scuole casalinghe. Una stanza, una maestra, non più di sei-sette alunne. I Taliban non le autorizzano, essendo il servire e il figliare l’unico scopo dell’umanità femminile. Ma neppure possono vietarle, perché ufficialmente nelle home-schools si insegna soltanto la religione islamica. In realtà si studia soprattutto inglese e matematica, nella previsione che un giorno i Taliban saranno cacciati. Un’Agenzia delle Nazioni Unite ha svolto un ruolo meritorio nella costruzione di questa rete di scuole illegali. Ma le home-schools sono nate spontaneamente, anche per iniziativa di un’organizzazione clandestina afgana, Rawa, acronimo che sta per associazione rivoluzionaria delle donne afgane (il sito internet è rawa@rawa.com). Due ragazze di Rawa mi hanno spiegato i trucchi coi quali le loro scuole eludono le frequenti irruzioni dei Taliban. Sui banchi c’è sempre un Corano, e un versetto sacro è scritto sul retro della lavagna. Quando la polizia coranica bussa alla porta, si gira la lavagna, si nascondono i libri e si offre agli intrusi uno spettacolo irreprensibile. Al contrario di altre organizzazioni non governative, Rawa non riceve contributi dall’Onu o dalla comunità internazionale, in quanto non rinuncia a definirsi "rivoluzionaria". Pare che alla sensibilità dei contemporanei l’aggettivo risulti intollerabile. Eppure proprio di questo ha bisogno l’Afganistan, di una rivoluzione anti-fondamentalista che cacci i Taliban. Possibile? Quando sono al sicuro dietro le mura domestiche, gli afgani confidano di aver perso ogni illusione nei Taliban. Nel 1996, quando presero Kabul, a una parte della popolazione non sembrò un cattivo affare il baratto che essi imposero: sicurezza contro obbedienza. Fino al loro arrivo la capitale era in balia di milizie di etnia tagica, uzbeca, hazara e pashtun, sistematiche nel taglieggio e facili allo stupro. Con i Taliban, almeno, tornò un certo ordine. E con l’ordine, l’illusione che il futuro sarebbe stato migliore. Sei anni dopo, anche i più ottimisti si sono dovuti ricredere. La somma di due catastrofi, la siccità e l’inettitudine dei ministri Taliban, ha precipitato l’Afganistan nella peggiore crisi alimentare dall’indipendenza. In un Paese in cui la sopravvivenza media è 42 anni, una carestia significa semplicemente questo: lo sterminio per fame delle fasce più deboli della popolazione. Così quest’inverno, e malgrado gli sforzi di World food program e Altocommissariato per i rifugiati, l’arida terra degli altopiani ha accolto migliaia di cadaveri. Bambini, soprattutto. Non è difficile intuire che i primi a morire siano stati i figli di donne rimaste sole, perché vedove o ripudiate dal marito. Esse infatti non possono lavorare, fosse pure nei mestieri più umili, perché a un donna è proibito. E se la loro famiglia non le aiuta, sono condannate a spegnersi lentamente insieme ai loro bambini. Le città afgane sono piene di queste candidate alla fossa comune, mendicanti immobili, acciambellate sul ciglio della strada. Completamente avvolte nei loro burqa azzurri e rosa, sembrano grandi corolle di fiori recisi che appassiscano nella polvere. Un giorno, mentre giravo per il misero bazar di Kabul tallonato da un interprete impostomi dai Taliban, due di loro mi avvicinarono e tesero le mani in una supplica muta. Quando l’interprete cercò di allontanarle (non gli piaceva che avessi contatti con la popolazione), le due mendicanti reagirono con un croscio di parole furiose. In quel momento mi sembrò di percepire quali oceani d’ira nascondano i burqa afgani. Il giorno in cui i Taliban saranno cacciati dall’Afganistan probabilmente non è prossimo, ma quando arriverà, che iddio protegga gli sconfitti dagli oceani d’ira accumulati sotto i burqa.