Andrea Bonanni, la Repubblica 4/1/2009, pagina 13, 4 gennaio 2009
la Repubblica, domenica 4 gennaio 2009 Il raddoppio del fabbisogno di cassa del settore statale per il 2008 rispetto ai conti lasciati da Padoa Schioppa nel 2007, non è una buona notizia per l´Italia
la Repubblica, domenica 4 gennaio 2009 Il raddoppio del fabbisogno di cassa del settore statale per il 2008 rispetto ai conti lasciati da Padoa Schioppa nel 2007, non è una buona notizia per l´Italia. Non tanto per gli effetti nei confronti dei parametri europei sul deficit, che potranno essere «limati» sotto il profilo statistico e che comunque, in tempi di crisi generalizzata, diventano necessariamente flessibili. Quello che fa paura, piuttosto, è il contraccolpo sul debito pubblico, che nel 2007 aveva ricominciato a scendere e che ora tornerà a salire. E l´aumento del debito porterà con sé anche il verosimile allargamento dello «spread», cioè del differenziale tra i tassi di interesse dei buoni del tesoro italiani e quello dei loro equivalenti tedeschi. Fino a ieri l´Italia pagava 143 punti base più della Germania per finanziare il suo debito. I buoni decennali tedeschi offrono un rendimento del 2,95 per cento. Quelli Italiani del 4,38. Ciò significa che il finanziamento del debito pubblico costa ai contribuenti italiani quasi il cinquanta per cento in più di quello che costa ai tedeschi. Ciò significa anche che l´Italia viene subito dopo la Grecia nella classifica dei Paesi europei penalizzati dai mercati finanziari. C´è un acronimo assai eloquente per indicare la «classe differenziale» dell´euro calcolata in base allo spread dei titoli di stato: pigs. Pigs, che in inglese vuol dire «porci», sono le iniziali di Portugal, Italy, Greece e Spain. Questi quattro Paesi rappresenterebbero il ventre molle di eurolandia. Non a caso l´acronimo è di origine anglo-sassone, e non a caso allinea al pubblico ludibrio i quattro Paesi mediterranei trascurando l´Irlanda, che con uno spread di 149 punti base, sta messa anche peggio di noi. Il termine «pigs» era stato utilizzato per la prima volta una dozzina di anni fa, ai tempi della creazione della moneta unica, dagli euroscettici anglosassoni che prevedevano vita breve per l´euro proprio a causa del fardello costituito dai quattro Paesi mediterranei. Poi, visto il successo dell´Unione monetaria, era finito nel dimenticatoio. Ci ha pensato l´Economist a rispolverarlo nel giugno scorso, quando sotto l´incalzare della crisi lo spread sui buoni del tesoro ha cominciato a impennarsi. Da allora continua a circolare negli ambienti della City con crescente insistenza. Inutile dire che, per l´Italia, non è una buona pubblicità: in tempi di crisi, la fiducia è tutto. E l´epiteto non contribuisce certo a creare un´immagine credibile. Ma, se pure denota un atteggiamento neppure troppo velatamente razzista, l´acronimo definisce comunque una situazione reale e indica alcune debolezze strutturali. Se lo spread della Grecia è di 225 punti base e quello dell´Italia di 143, il Portogallo ne paga 101 e la Spagna 87. Le cause che penalizzano questi Paesi nella fiducia degli investitori sono di diversa natura. Ma, spiegano a Bruxelles, sono riconducibili a due fattori principali: un deficit di competitività dei sistemi-Paese e conti economici in disordine. In misura maggiore o minore, Italia, Portogallo, Spagna e Grecia soffrono di entrambi i mali. E si tratta di «colpe» che il mercato è poco incline a perdonare. Quando la lira entrò nell´euro, il suo spread era sotto i venti punti, e su quei livelli, tra i venti e i venticinque punti base, è rimasto per la maggior parte dei dieci anni di moneta unica. Ma negli ultimi mesi si è moltiplicato del settecento per cento. La domanda che tutti si pongono a questo punto è: può l´euro resistere alla tempesta economica e finanziaria lasciando crescere a dismisura il differenziale dei tassi di interesse? Secondo molti opinionisti di scuola anglosassone, la risposta è evidentemente negativa. Ma a Francoforte, nella sede della Banca Centrale europea, l´allargarsi degli spread sul finanziamento dei debiti pubblici non suscita altrettanta inquietudine per la sopravvivenza della moneta unica. Con la creazione dell´euro, si spiega, i governi hanno perso la sovranità sulla moneta e non possono stampare soldi per finanziare il loro debito. Questo fa sì che le obbligazioni emesse dai vari stati dell´Unione monetaria equivalgano né più né meno a quelle emesse dalle aziende private: alcune sono magari sopravvalutate dal mercato e ne traggono beneficio, altre sono penalizzate e, a torto o a ragione, ne pagano il prezzo. Differenziali consistenti esistono anche tra le emissioni degli stati americani o di quelli canadesi, pure loro legati da una moneta unica, senza per questo mettere in discussione la sopravvivenza del dollaro. Offrendo un interesse inferiore al tre per cento su titoli a dieci anni, si osserva negli ambienti bancari, la Germania offre ai risparmiatori una rendita che copre a malapena l´inflazione e dunque capitalizza la propria immagine di solidità economica e di rigore di bilancio. Il fatto che possa permettersi di pagare interessi così bassi è dovuto alla grande paura generata dalla crisi finanziaria. E questo spiega anche perché Paesi anche solo parzialmente meno solidi, ma con una immagine di gran lunga meno credibile, come i «pigs», paghino un prezzo esagerato alle paure degli investitori. In tempi normali, osservano alla Bce, con mercati finanziari che funzionano a pieno ritmo, sarebbero gli stessi hedge funds e gli altri grandi fondi speculativi a svolgere funzione di arbitraggio vendendo buoni tedeschi per acquistare quelli che, come gli italiani o gli spagnoli, offrono un rendimento maggiore. Ma in questa situazione nessuno ragiona con una prospettiva decennale. Tutti vogliono mantenere liquidità e i bund tedeschi appaiono in questo senso più appetibili. Ciò spiega perché il mercato finanziario non abbia ancora provveduto a riequilibrare almeno parzialmente un differenziale che viene considerato eccessivo. Di fronte a queste motivazioni di ordine psicologico, c´è poco che i governi possano fare, se non consolarsi del fatto che, in mancanza di una unione monetaria, dovrebbero pagare un interesse di rischio ben superiore e si troverebbero probabilmente esposti a svalutazioni a catena. Solo quando la Grande Paura sarà passata, dicono all´Eurotower di Francoforte, le oscillazioni degli spread torneranno a livelli normali. Ma certo il raddoppio del fabbisogno in un anno non aiuta a calmare la paura. Andrea Bonanni