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 2009  gennaio 03 Sabato calendario

IL DILEMMA DI ISRAELE


Dopo sei giorni di attacchi aerei sulle postazioni di Hamas a Gaza e di razzi palestinesi di ritorsione, la leadership di Israele è a un bivio: o affrontare un’impegnativa offensiva di terra o trovare una scappatoia diplomatica che consenta di salvare la faccia, ma che lascerebbe gli islamici con la maggior parte della potenza di fuoco intatta.
Una terza alternativa sarebbe quella di continuare gli attacchi aerei e inviare sul terreno carri armati e trasporti truppe blindati con un obiettivo limitato, quello di distruggere le capacità missilistiche di Hamas in determinati settori, di impedire il rifornimento di Hamas lungo il confine fra la Striscia e l’Egitto, e di uccidere il maggior numero possibile di combattenti palestinesi.
I leader israeliani sembrano avere respinto l’ipotesi internazionale di una tregua umanitaria di 48 ore, mirata a guadagnare tempo per un’eventuale soluzione diplomatica. Hanno sostenuto che non c’è nella Striscia nessuna vera crisi umanitaria e che porre fine alla campagna senza spezzare la volontà di Hamas di colpire Israele con i razzi equivarrebbe a una sconfitta.
Senza dubbio la leadership israeliana porterà avanti la campagna militare fino a quando non sarà distrutto o completamente esaurito l’arsenale di razzi Grad con gittata di 40 chilometri, di fabbricazione russa e forniti dall’Iran, in grado di colpire le città di Ashdod e Beersheba, entrambe di 200mila abitanti.
A questo punto, dopo che la campagna aerea ha cancellato la maggior parte degli obiettivi (i campi di Hamas, gli edifici dell’amministrazione locale e altro) un qualche tipo di attacco via terra è probabile nelle prossime ore. L’attuale clima invernale - nuvole, pioggia e fango - potrebbe ritardare tuttavia il momento.
Il problema con qualsiasi attacco via terra, di ogni tipo, è che farebbe aumentare verticalmente le vittime israeliane - i palestinesi hanno un gran numero di razzi anticarro e missili - e le vittime civili palestinesi. E se fosse un attacco massiccio e mirato a penetrare nei strategici campi profughi sovraffollati di Gaza, le vere roccaforti delle milizie di Hamas, l’attacco potrebbe facilmente venire interrotto dal peso delle vittime e della reazione internazionale, senza paraltro riuscire nell’obiettivo di neutralizzare le batterie di razzi.
L’attuale rigurgito di violenza è stato innescato dalla periodica pioggia di razzi che ogni tanto nell’ultimo decennio e soprattutto da quando a metà dicembre Hamas ha dichiarato la fine della tregua semestrale si è abbattuta soprattutto sulle città di Sderot e Ashkelon e sugli insediamenti isaraeliani di confine in genere.
Da metà dicembre i razzi di Hamas hanno colpito obiettivi sempre più all’interno di Israele, inclusa la capitale della regione del Negev, Beersheba, e la città portuale di Ashdod. Tutto questo ha reso assai più difficile per il primo ministro Ehud Olmert, per il ministro della Difesa e leader laburista Ehud Barak e per il ministro degli Esteri e leader del partito Kadima, Tzipi Livni, accettare una fine delle ostilità senza una chiara vittoria militare.
Il problema della leadership israeliana si innesta poi sul fatto che le elezioni generali sono previste per il 10 febbraio e il risultato sarà fortemente influenzato da come l’elettorato giudicherà il comportamento dei leader in questa mini guerra.
Ai margini dell’attuale Governo si posiziona il leader del Likud, ed ex primo ministro, Benyamin Nethanyahu, un falco che non perde occasione per dire che la sua politica sarebbe, una volta tornato al potere, quella di «distruggere Hamas». Ogni esitazione o errore di Livni e Barak avvantaggia Nethanyahu. I sondaggi lo stanno indicando come il favorito per la guida del nuovo Governo che uscirà dalle elezioni.
Gli attuali leader isareliani sono stati deliberatamente ambigui nel definire gli obiettivi militari. Ma molti osservatori ritengono che il nerbo del Governo si è dato come obiettivo quello di distruggere le capacità delle batterie di razzi Hamas di colpire Israele.
Paradossalmente, molti israeliani prendono a modello il conflitto fra Israele e gli Hezbollah in Libano dell’estate del 2006. A molti può essere sembrata una vittoria araba o almeno una sconfitta di Israele. Ma il prezzo che Israele ha imposto allora ad Hezbollah - la distruzione del quartiere di Dahiya nel centro di Beirut, l’uccisione di 500 armati di Hezbollah e la distruzione dell’arsenale dei razzi a medio e a lungo raggio - è stato alla fine un deterrente importante.
Gli Hezbollah, da quando accettarono la fine di una guerra durante la quale avevano fatto piovere su Israele settentrionale 200 razzi al giorno, hanno rinunciato a qualsiasi operazione militare transfrontaliera e nella scorsa settimana non hanno fatto nulla oltre il sostegno verbale per aiutare i loro fratelli di Gaza, deludendo così probabilmente sia i palestinesi che gli iraniani.
Il punto è sapere quale tipo di punizione - di Hamas e/o della popolazione di Gaza - è sufficiente per spegnere la voglia di Hamas di continuare ad attaccare Israele e quale spazio viene concesso dal pubblico israeliano e dall’opinione pubblica mondiale per portare a termine tutto questo.
Finora la morte di circa 400 persone a Gaza, circa un quarto civili e il resto personale di Hamas (certamente i propagandisti arabi avrebbero salutato l’opportunità di avere assai più vittime civili da mostrare sugli schermi televisivi di tutto il mondo), ha soltanto aumentato la bellicosità di Hamas. Efficaci operazioni di terra e l’esaurimento dei razzi Grad potrebbero cambiare l’atteggiamento dei terroristi.