Note: [1] Giovanni Porzio, Panorama 8/1/2009; [2] D. F., Corriere della Sera 30/12/2008; [3] Guido Rampoldi, la Repubblica 2/1/2009; [4] André Glucksmann, Corriere della Sera 3/1/2009; [5] Joseph Halevi, il manifesto 3/1/2009; [6] Davide Frattini, Corrier, 8 gennaio 2009
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 5 GENNAIO 2009
L’attacco israeliano su Gaza scatenato alle 11.30 del 27 dicembre, un’offensiva come non se ne vedevano dal 1967, era stato pianificato nei minimi dettagli fin dalla scorsa primavera. Giovanni Porzio: «Ufficialmente l’operazione denominata Piombo fuso è la risposta al ripetuto lancio dei razzi Qassam sulle cittadine israeliane del Negev. Che si è intensificato dopo la fine della ”hudna”, la tregua in vigore per sei mesi, che Hamas ha dichiarato scaduta il 18 dicembre scorso. I razzi artigianali in dieci anni hanno causato una dozzina di vittime, ma rappresentano una costante minaccia per gli abitanti di Sderot, Netivot, Ashqalon e Ashdod». Shlomo Brom, ex generale dell’esercito ora ricercatore all’Institute for national security studies di Tel Aviv. «C’erano numerose pressioni sul governo affinché dimostrasse che è ancora in grado di proteggere il suo popolo. Ma questa operazione serve soprattutto a riaffermare la capacità di deterrenza del nostro paese». [1]
Molti hanno parlato di uso sproporzionato della forza per rispondere alle «punture di spillo» dei razzi palestinesi. [2] Guido Rampoldi: «Per ogni israeliano ucciso nel 2006 morirono dieci libanesi. A Gaza il rapporto è decuplicato: uno a cento». [3] André Glucksmann: «Quale sarebbe la giusta proporzione da rispettare per far sì che Israele si meriti il favore dell’opinione pubblica? L’esercito israeliano dovrebbe forse rinunciare alla sua supremazia tecnologica e limitarsi a impugnare le medesime armi di Hamas, vale a dire la guerra approssimativa dei razzi Grad, la guerra dei sassi, oppure a scelta la strategia degli attentatori suicidi, delle bombe umane che prendono di mira volutamente la popolazione civile? O, meglio ancora, non sarebbe preferibile che Israele pazientasse saggiamente finché Hamas, per grazia di Iran e Siria, non sarà in grado di ”riequilibrare” la sua potenza di fuoco? A meno che non occorra portare allo stesso livello non solo i mezzi militari, ma anche gli scopi perseguiti. Poiché Hamas – contrariamente all’Autorità palestinese – si ostina a non riconoscere allo Stato ebraico il diritto di esistere e sogna l’annientamento dei suoi cittadini, non sarebbe il caso che Israele imitasse questo spirito radicale e procedesse a una gigantesca pulizia etnica?». [4]
Israele non è esente da responsabilità. Porzio: «La chiusura dei valichi anche durante la ”hudna”, che ha spesso impedito il passaggio perfino dei camion con gli aiuti umanitari dell’Onu, ha strangolato la disastrata economia della Striscia. Nel fazzoletto di 45 chilometri per 10 il tasso di disoccupazione supera il 60 per cento, il reddito pro capite è un quindicesimo di quello israeliano, il costo della vita è quadruplicato e un abitante su due vive al di sotto della soglia della povertà. Una forma di punizione collettiva che non ha raggiunto lo scopo dichiarato di minare le basi del potere di Hamas». [1] Secondo quanto scritto da Nehemia Strassler sull’edizione in ebraico di Haaretz del 30 dicembre, tutto cominciò il 4 novembre quando Tsahal (l’esercito israeliano) penetrò nella striscia per distruggere un tunnel scavato nel settore centrale: «Tutte le valutazioni prima del 4 novembre erano che la maggioranza di Hamas era favorevole alla continuazione della tregua anche dopo la sua scadenza il 19 dicembre». [5]
Gli ”agricoltori” di Hamas hanno usato i mesi della tregua per coltivare i loro campi. Davide Frattini: «Buche profonde tra gli ulivi e gli alberi d’arancio, coperte da un tettoia di legno o di lamiera. Dentro, i frutti che il movimento fondamentalista ha accumulato negli arsenali: razzi. I miliziani comprano i piccoli appezzamenti o chiedono il permesso ai proprietari. Scavano i bunker e piazzano i Qassam, comandati anche a distanza con un telefonino». [6] Piero Ostellino: « Con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un’opportunità. Al tempo stesso, però, il passaggio della sua amministrazione nelle loro mani aveva creato obbiettivamente le premesse di una loro spaccatura. L’opportunità consisteva nella possibilità che le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele, voluto da Usa e Europa». [7]
L’elenco dei piani di pace elaborati in questi ultimi trent’anni è lungo e nessuno ha prodotto risultati concreti. Tahar Ben Jelloun: «Da quello del 1981 di re Fahd dell’Arabia Saudita al piano Reagan del settembre 1982, da quello di Londra dell’aprile 1987 a quello di Oslo del 1991, fino al piano Clinton-Barack del 2000, al negoziato di Taba del 2001 e all’iniziativa di Ginevra, ”Due popoli, due Stati” firmata nel dicembre del 2003». [8] Ernesto Galli Della Loggia: «Politici e osservatori accreditati si affannano a sottolineare che bisogna trovare a tutti i costi una mediazione, individuare un punto d’incontro. Esigenza sacrosanta. Se non fosse per un piccolo particolare: perché ci sia una mediazione deve esserci qualcuno con cui mediare, vale a dire qualcuno non solo convinto dell’opportunità di un accordo basato sul do ut des, ma che dia garanzie di voler lui stesso per primo rispettare un tale accordo, nonché di poter farlo rispettare a chicchessia». [9]
La crisi mediorientale non ha mai trovato una soluzione perché finora da parte araba una figura, un’autorità, una cultura del genere, sono sempre mancate. Della Loggia: «La maggioranza dei paesi arabi giudica assolutamente sbagliata la linea terroristica di Hamas, ne condanna la politica di divisione del fronte palestinese, l’intolleranza fondamentalista. Ma nessuno di essi ha il coraggio di gridarlo con forza e di schierarsi apertamente contro. Il perché si sa: perché quei governi hanno paura di essere travolti, complice il terrorismo, dalle rispettive popolazioni, conquistate da tempo a un antiisraelismo cieco e violento, nutrito spessissimo di antisemitismo». [9] Da giorni il presidente egiziano Hosni Mubarak si sente dare del traditore nelle piazze del mondo arabo perché tiene chiuso il confine con Gaza. Viviana Mazza: «Il mini-confronto tra Hezbollah ed Egitto ”per i cuori e le menti” degli egiziani si inserisce, secondo gli esperti, nel più ampio scontro di potere tra Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Autorità nazionale palestinese da una parte e Hamas, Hezbollah e Iran e Siria (che finanziano e appoggiano i primi due) dall’altra». [10]
Nasrallah, leader dell’Hezbollah, la guida suprema iraniana Khamenei (e il libico Gheddafi) hanno subito criticato la «codardia» e il «complotto coi sionisti» di «alcuni governi arabi». Nabil Khattib, direttore della tv Al Arabiya: «Governi come l’Egitto sono in una situazione delicata. Temono che il modello Hamas di partito islamico al potere si espanda nella regione, sperano che fallisca». [11] Guido Olimpio: «Per anni Teheran ha puntato sulla più malleabile Jihad islamica e ha guardato con cautela ad Hamas, che, forte della sua base popolare e gelosa della propria autonomia, non si è mai trasformata in un docile burattino. Ma da quando Gaza è diventato l’Hamastan le cose sono cambiate. L’indice del mutamento nei rapporti è dato dai finanziamenti iraniani: 30 milioni di dollari nel 1993, 120 nel 2006, oltre 350 nel 2007. Più l’embargo anti-Hamas si è fatto soffocante e più Teheran ha trovato spazi per infiltrarsi. Lungo quest’asse si è sviluppata la cooperazione militare». [12]
Dopo decenni di estenuanti tentativi, e di finte illusioni, è morta l’idea secondo la quale negoziati bilaterali tra israeliani e palestinesi potrebbero sfociare da soli in un accordo finale: le situazioni politiche in Israele e in Palestina non conoscono né l’una né l’altra la coerenza e la coesione indispensabili. Bernardo Valli: «In campo palestinese il movimento nazionale vive le lacerazioni interne più profonde da quando Yasser Arafat ne prese le redini più di quarant’anni fa. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), una volta rappresentante unico e legittimo del suo popolo, dispone di scarso prestigio. Con la nascita e l’affermazione della corrente islamica incarnata da Hamas (vincitrice delle ultime elezioni) l’autorità dell’Olp è largamente contestata. Il suo principale movimento, il laico Al Fatah, un tempo ritenuto la principale forza riformatrice (ma anche la più corrotta e per questo sconfitta alle ultime elezioni), è in preda a lotte intestine, inasprite dalla secessione di Gaza, sotto il controllo di Hamas dal giugno 2007. La tenzone tra Hamas e Al Fatah è aperta e spietata, nonostante i tentativi di mediazione, in particolare attraverso personaggi egiziani». [13]
L’instabilità cronica del sistema politico israeliano costituisce l’altro versante di una paralisi quasi strutturale. Valli: «I governi di Gerusalemme arrivano di rado alla fine dei loro mandati e quindi dei loro progetti riguardanti i rapporti con i palestinesi. Il caso estremo è l’assassinio nel novembre 1995 del primo ministro Yitzhak Rabin, promotore degli accordi di Oslo, che riconobbero per la prima volta un’autonomia palestinese. Il caso più recente sono le dimissioni di Ehud Olmert, in seguito ad accuse di corruzione, il quale resta primo ministro in esercizio fino alle elezioni anticipate del 10 febbraio». [13] Segio Romano: «Vi è certamente un rapporto fra i tempi dell’operazione militare nella striscia di Gaza e quelli della politica israeliana. Il premier Olmert, il ministro degli Esteri Tzipi Livni e il ministro della Difesa Ehud Barak hanno agito ora perché temevano che la moderazione sarebbe stata interpretata da molti elettori come una manifestazione d’impotenza e avrebbe regalato una trionfale vittoria a Benjamin Netanyahu, leader del Likud, nelle elezioni che si terranno il 10 febbraio». [14]
Le elezioni presidenziali palestinesi, in programma il 9 gennaio, sono state rinviate sine die. Grazie a un clima più costruttivo e agli aiuti internazionali, l’attuale presidente Abu Mazen ha migliorato le condizioni di vita della popolazione in Cisgiordania. Boris Biancheri: «Il contrasto con la miseria di Gaza sovraffollata, retta da Hamas senza ordine e senza risorse, salta agli occhi di ogni palestinese. Che Hamas cerchi di contrastare i relativi successi di Abu Mazen in Cisgiordania e che, per farlo, sia disposto a rischiare perfino un ritorno degli israeliani nella Striscia di Gaza, non può sorprendere. Il terrorismo sa bene come sopravvivere anche alle occupazioni militari». A giugno si voterà anche in Iran: per il presidente Ahmadinejad,, profeta non della sconfitta ma della distruzione di Israele, ogni soluzione pacifica è inaccettabile. Biancheri: «Una situazione di conflitto permanente, quale si è avuta per decenni, congiunta agli errori americani in Iraq, ha permesso all’Iran di essere sinora il solo vincente in questa eterna crisi mediorientale. Che la Palestina vada a ferro e fuoco non lo danneggerebbe e certo non smentirebbe le sue apocalittiche previsioni». [15]