Annuario Panorama 2008, 2 gennaio 2009
Il 7 novembre, nella prima conferenza stampa da presidente eletto, Barack Obama non parla quasi di politica estera
Il 7 novembre, nella prima conferenza stampa da presidente eletto, Barack Obama non parla quasi di politica estera. Con tutta l’attenzione focalizzata sui problemi dell’economia, l’unico accenno di politica internazionale, sollecitato dalla domanda di un giornalista, è per l’Iran e non è per nulla accomodante: il programma nucleare della repubblica islamica è «inaccettabile», così come inaccettabile è il sostegno di Teheran alle organizzazioni terroristiche. Anche con queste premesse (alle quali il regime degli ayatollah reagisce stizzito) resta in piedi la possibilità del dialogo, auspicata in campagna elettorale. Tanto che Obama, a differenza di Bush, annuncia che risponderà «in modo appropriato» alla lettera inviata dal presidente iraniano Ahmadinejad subito dopo la sua elezione. Per il presidente eletto il «fronte centrale» della guerra al terrorismo (così come l’aveva battezzato durante il viaggio di luglio in Asia centrale) resta comunque l’Afghanistan. E questo, insieme all’altro cardine della politica estera della nuova amministrazione, cioè il ritiro delle truppe Usa dall’Iraq da completare entro 16 mesi, comporta uno spostamento dell’asse d’intervento da Baghdad a Kabul. Già da gennaio le prime brigate da combattimento di un contingente di 20 mila uomini potrebbero essere trasferite in Afghanistan, là dove, oltretutto, la questione militare si è fatta rilevante, con gli Stati Uniti che secondo i rapporti dell’intelligence stanno perdendo terreno. Ad al Qaeda, inoltre, Obama fa sapere che il primo obiettivo degli Stati Uniti è sempre la cattura di bin Laden e che i terroristi all’occorrenza saranno inseguiti anche in Pakistan. Agli alleati europei della Nato chiede una maggiore cooperazione, anche sul terreno: gli Stati Uniti non vogliono e non possono più fare da soli. Guardando poi a Mosca, il presidente eletto non ha trovato sulle prime segnali incoraggianti per il dialogo. Il presidente russo Dmitrij Medvedev ha scelto le ore immediatamente seguenti la vittoria elettorale per avanzare, nel suo primo discorso al Parlamento, minacce di ritorsioni contro gli Stati Uniti e la Nato per il cosiddetto scudo spaziale. La prima potrebbe essere quella di installare missili a medio raggio (con eventuali testate nucleari) nell’enclave di Kaliningrad, ex Prussia Orientale, a 200 chilometri da Varsavia e a 400 da Berlino. Qualche giorno dopo, però, lo stesso Obama, al telefono con il presidente polacco Lech Kaczynski, non ha voluto prendere impegni sulla costruzione dello scudo, in programma in Polonia e Repubblica Ceca. «La sua posizione rimane che lui appoggerà l’installazione dello scudo, solo quando la tecnologia per realizzarlo si dimostrerà fattibile», ha specificato uno dei suoi consiglieri. In coincidenza con le sue parole, la prima telefonata tra Obama e Medvedev: il risultato, non più minacce ma l’impegno a incontrarsi dopo l’insediamento alla Casa Bianca.