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 2009  gennaio 08 Giovedì calendario

L’espresso, 8 gennaio 2009 Una guerra "lunga", quella dell’Afghanistan. Il generale David H. Petraeus, 56 anni, comandante di tutte le forze americane di stanza all’estero, in questa intervista dice "lunga" e non azzarda previsioni più precise

L’espresso, 8 gennaio 2009 Una guerra "lunga", quella dell’Afghanistan. Il generale David H. Petraeus, 56 anni, comandante di tutte le forze americane di stanza all’estero, in questa intervista dice "lunga" e non azzarda previsioni più precise. Ha appena ottenuto l’invio di altri 30 mila soldati entro la prossima estate per vincere un conflitto più insidioso e problematico di quello iracheno, dove la sua ’dottrina’ è stata l’unica a dare qualche frutto. Si trova davanti alla scommessa più ardita della sua vita di soldato e ne è consapevole. In Afghanistan hanno fallito tutti, dai britannici ai sovietici. Lui è convinto di potercela fare. Ha già delle idee chiare in testa su tattica e strategia. Qui le espone. Generale Petraeus, che cosa, di quanto appreso in Iraq, applicherà in Afghanistan? " importante tenere presente un principio fondamentale delle operazioni di controguerriglia: ogni caso è a sé. Ciò vale a maggior ragione per l’Afghanistan. Se alcuni concetti generali che si sono rivelati utili in Iraq potranno essere messi a frutto in Afghanistan - concetti quali l’importanza di mettere in sicurezza la popolazione e aiutarla, nonché la necessità di vivere tra la gente per poterne garantire la sicurezza - la realizzazione di queste Grandi Idee dovrà necessariamente essere adattata alla realtà afgana. La loro attuazione pratica sarà inevitabilmente diversa, in quanto l’Afghanistan ha una storia diversa, una ’memoria’ molto diversa in termini di governance centrale (o di assenza della stessa). L’Afghanistan è altresì privo delle risorse naturali che ha l’Iraq ed è più rurale; ha una quantità inferiore di capitale umano istruito per colpa degli alti tassi di analfabetismo, come pure una notevole disoccupazione, un’economia le cui esportazioni più redditizie sono illegali e una significativa diffusione della corruzione. Infine, nonostante si siano registrati in queste e in altre aree considerevoli miglioramenti dopo il 2001, l’Afghanistan è anche privo di adeguati servizi di base di un certo livello, quali elettricità, acqua potabile, scuole. Non è possibile affrontare in maniera adeguata le sfide che l’Afghanistan pone senza al contempo considerare il Pakistan. Chi ambisce ad aiutare questi due Paesi deve allargare ancor più l’ottica, fino a comprendere gli Stati dell’Asia centrale, India, Iran e persino Cina e Russia". Il segretario della Difesa Robert Gates ha detto che gli sforzi Usa in Afghanistan erano sul punto di fallire. Qual è la sua opinione in proposito? "Nel settembre 2005 dissi all’allora segretario Donald Rumsfeld che quella dell’Afghanistan sarebbe stata la campagna più lunga della cosiddetta ’lunga guerra’. La mia affermazione si basava sul fatto che di ritorno dalla mia seconda missione in Iraq avevo fatto tappa in Afghanistan per valutare la situazione di persona. Dopo esservi ritornato due volte negli ultimi mesi, posso affermare di pensarla ancora nello stesso modo. Perché ci siano progressi in Afghanistan occorre un impegno continuo, duraturo e sostanziale. Tale impegno deve allargarsi fino a coinvolgere anche il Pakistan, benché in Pakistan vi siano istituzioni di buon livello addette alla sicurezza, ben preparate, e benché la leadership pachistana sia determinata a utilizzare esclusivamente i propri soldati per far fronte alle gravi sfide e ai rischi che incombono sul suo Paese". Ho riletto di recente il commento di un veterano reduce dalla missione sovietica in Afghanistan. Al termine di ogni azione di rappresaglia, egli annotava: "Forse è rimasto ucciso un mujaheddin, ma gli altri erano innocenti. I sopravvissuti ci odiano e vivono con una sola idea in testa: vendicarsi". La missione statunitense in Afghanistan non è iniziata con le medesime premesse di quella sovietica, ma è naturale chiedersi se in ogni caso tutte le occupazioni dopo sette anni non arrivino prima o poi ad assomigliarsi. "Sono in molti ad aver già messo in luce le differenze sostanziali tra la natura del coinvolgimento sovietico in Afghanistan e quello delle forze della Coalizione. La differenza più eclatante si evince dagli obiettivi della Coalizione: non soltanto il desiderio di aiutare gli afgani a instaurare la sicurezza e precludere così agli estremisti la possibilità di stabilirsi nel Paese, ma anche la volontà di aiutare lo sviluppo economico, le istituzioni democratiche, l’instaurazione della legalità, le infrastrutture, l’istruzione. Indubbiamente la Coalizione deve fare fronte ad alcune delle medesime sfide che ogni altro esercito ha dovuto affrontare in Afghanistan: lo stesso territorio difficile, lo stesso clima durissimo, gli elementi tribali che della guerra fanno un punto d’onore, la mancanza di infrastrutture. In circostanze simili è fondamentale e basilare essere considerati al servizio della popolazione, oltre che presenti per garantirne la sicurezza. Ciò spiega perché stiamo conducendo operazioni di controguerriglia, invece che operazioni di semplice antiterrorismo". Entriamo nel concreto. Come comportarsi in Afghanistan per avere successo? "Non è possibile prendere semplicemente le tattiche, le tecniche e i criteri che hanno dato esiti positivi in Iraq e utilizzarli in Afghanistan. Come si comunica, per esempio, con gli afgani? In modo completamente diverso da come si comunica con gli iracheni, tenuto conto del numero esiguo di apparecchi televisivi, considerato un tasso di analfabetismo che nelle province afgane raggiunge il 70-80 per cento. Fuori Kabul e le altre grandi città afgane, la popolazione non guarda molto la televisione, non la possiede proprio. In Iraq invece, sorvolando aree anche molto remote si avvista sempre qualche antenna satellitare. In Afghanistan può essere difficile finanche procurarsi una radio. Se poi si considera che la maggior parte degli afgani è analfabeta e non sa leggere, non è nemmeno ipotizzabile perseguire un risultato analogo tramite volantini o inserzioni su giornali locali. Il problema quindi è serio: come comunicare con gli afgani? Per mezzo degli anziani, tramite le gerarchie tribali, tramite radioline a carica manuale che ricevono le trasmissioni dalle emittenti radiofoniche locali, tramite i Consigli della shura, e così via". Ciò che alla gente preme sapere è quando finirà tutto questo? Dalle dichiarazioni che lei ha fatto in passato si evince che queste guerre si concludono con soluzioni politiche, non combattendo e uccidendo. "Uno dei concetti che abbiamo assimilato in Iraq è riconoscere che non è sufficiente combattere per porre fine a un’insurrezione così complessa e organizzata. La vera sfida in Afghanistan è comprendere come ridurre sostanzialmente i morti e i prigionieri. Questo implica creare le premesse a partire dalle quali sia possibile procedere a riconciliazioni di successo con alcuni degli elementi che ci contrastano. Fare progressi da questo punto di vista è più plausibile quando si è in una posizione di forza e quando ci sono ragioni concrete in funzione delle quali i vari gruppi possano cambiare, passando dall’essere parte del problema all’essere parte della soluzione. In Iraq ciò è stato facilitato dalla graduale ammissione che Al Qaeda non aveva portato nient’altro che violenza indiscriminata, pratiche oppressive e un’ideologia estremista alla quale la popolazione non ha mai aderito veramente. Oltre a ciò, sono stati creati incentivi di varia natura per persuadere i ribelli che era molto più logico aiutare il nuovo Iraq. La sfida in Afghanistan è diversa e consiste nel comprendere come creare le condizioni che meglio possano favorire la riconciliazione, ammettendo che queste saranno diverse da quelle create in Iraq". Pensa che questo comporterà di parlare con i signori della guerra, persone come Gulbuddin Hekmatyar, per esempio, che fino a questo momento non hanno fatto granché? "Un simile programma di sostegno deve partire da un’iniziativa afgana. In Iraq è stato necessario che la Coalizione prendesse le redini in alcuni ambiti in cui il governo era assente o non era garantita la sicurezza". Ritiene che vi sia qualcosa di nuovo e di diverso negli episodi di insurrezione che hanno visto impegnati i soldati americani in Iraq e in Afghanistan? "Abbiamo preso in seria considerazione questo argomento quando abbiamo redatto il manuale per la controinsurrezione, e siamo giunti alla conclusione che alcuni aspetti delle tattiche degli estremisti contemporanei sono in effetti diversi e inediti. Se si considera ciò a cui il responsabile militare francese David Galula dovette far fronte in Algeria, si scopre che lui e i suoi colleghi non dovettero naturalmente affrontare un network transnazionale di estremisti resi più forti e preparati dalla possibilità di accedere a Internet. Oggi le cellule mediatiche estremistiche reclutano, istigano, addestrano, condividono competenze di vario tipo e generano molteplici risorse di riferimento nel cyberspazio. L’incidenza dei letali attentatori suicidi e di attentati condotti con autobombe oggi è enormemente più alta: pare quasi che gli attentati suicidi con autobombe siano diventati l’arma di precisione dei ribelli e dei guerriglieri moderni estremisti. Se in molte insurrezioni è sempre stata presente una certa componente religiosa, la natura estremista del nemico particolare con il quale ci scontriamo sembra invece non avere precedenti, almeno nella storia recente". La guida pratica per la controinsurrezione è considerata un elemento cruciale nel ripensamento che ha dato un nuovo corso alla guerra in Iraq. Ma non per questo è stata esente da critiche: in particolare ci sono elementi della sinistra che la considerano una forma di neocolonialismo, mentre alcuni conservatori sono scettici nei confronti di qualsiasi cosa rientri in operazioni di nation-building. Altri ancora credono che preparandosi a combattere questo tipo di guerra, gli Stati Uniti rischino di non essere più preparati a combattere un conflitto convenzionale. Che cosa pensa di queste critiche? " importante riconoscere la teoria che il nostro esercito ha adottato, il concetto di ’operazioni a tutto raggio’. In virtù di questo concetto qualsiasi operazione militare è un insieme di operazioni d’attacco, di difesa, di stabilità e di supporto a uno stesso tempo. In altre parole, occorre sempre pensare non soltanto a forme convenzionali di combattimento, ma anche alle altre componenti. In caso contrario, il successo delle operazioni di combattimento convenzionale potrebbe essere messo a repentaglio dall’impreparazione per le operazioni spesso necessarie subito dopo le prime. Il dibattito su questo argomento è stato provvidenziale, ma dobbiamo essere cauti trattando argomenti che implicano la necessità di scegliere tra addestramento e soldati per operazioni finalizzate alla stabilità o al combattimento convenzionale. Non solo è possibile essere preparati per entrambe queste cose, ma è diventato indispensabile. Faremmo bene a stare alla larga dall’idea di poter scegliere e decidere i tipi di guerre nelle quali vogliamo essere coinvolti e di prepararci esclusivamente per esse". Già nel 2005, quando era in Afghanistan, lei riferì al Segretario Rumsfeld che quella poteva essere la parte più lunga di questa lunga guerra. "Non dissi che poteva esserlo: dissi che lo sarebbe stata. E credo che il presentimento sia stato confermato dai fatti". E a quale arco di tempo si riferisce? "Sono ipotesi che non ci si azzarda a fare". Susan Glasser