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 2008  dicembre 28 Domenica calendario

Il Sole-24 Ore, domenica 28 dicembre 2008 Quando nel novembre 2007, Selenia, storico marchio lubrificanti, è stata ceduta dal colosso americano del private equity Kkr al gruppo indonesiano Petronas, i venditori potevano ritenersi più che soddisfatti

Il Sole-24 Ore, domenica 28 dicembre 2008 Quando nel novembre 2007, Selenia, storico marchio lubrificanti, è stata ceduta dal colosso americano del private equity Kkr al gruppo indonesiano Petronas, i venditori potevano ritenersi più che soddisfatti. Il fondo, infatti, aveva comprato l’azienda italiana a un valore di 833 milioni di euro dal precedente proprietario (il fondo Vestar), e dopo circa un anno la rivendeva a circa un miliardo di enterprise value. Selenia è stata l’azienda più gettonata dai fondi negli ultimi anni e ogni volta è passata di mano a prezzi più alti: in sette anni, infatti, ha girato quattro diversi proprietari. Nel 2000 il fondo Doughty Hanson rilevò l’azienda dalla Fiat e ora è tornata in mano a un industriale. Per effetto dei vari passaggi, però, la valorizzazione di Selenia è più che raddoppiata (da 430 milioni di otto anni fa al miliardo del 2007). Selenia è stato uno dei casi più in eclatanti dell’euforia da acquisizioni nel mondo del private equity. Ma in tutti questi passaggi di mano il private equity ha creato valore industriale o il tutto è stato solo un’immensa bolla speculativa finanziaria? Il Sole 24 Ore ha passato in rassegna, grazie a uno studio su un campione di 25 operazioni, i «secondary buy-out» (un fondo che compra da un altro fondo) effettuate tra il 2003 e il 2007 per verificare come stanno le cose. Una risposta univoca probabilmente non c’è, ma i dati mostrano che c’è stata una bolla, che i fondi hanno venduto e comprato le aziende a prezzi spropositati rispetto al reale valore creato e che oggi quelle stesse aziende si trovano in eredità un debito raddoppiato. Negli ultimi cinque anni i fondi hanno presentato al mercato il biglietto da visita dell’investimento che ha creato molto più valore e redditività rispetto a tutti gli altri, per la gioia dei sottoscrittori. Allo stesso tempo il private equity si è accreditato come portatore di un effetto benefico sulle imprese e sul sistema economico. I numeri dicono che a livello aggregato negli anni di boom dell’M&A, i fondi ha comprato aziende pagandole in media 5,9 volte il margine operativo lordo. Quando sono usciti, vendendo le aziende ad altri fondi, il multiplo era arrivato a nove volte. Tradotto in cifre, il sistema dei fondi ha creato 4,4 miliardi di euro di ricchezza finanziaria (calcolata come enterprise value, ossia il patrimonio più i debiti), una cifra enorme che si è tramutata in rendimenti stratosferici per i fondi. Ma c’è stato anche valore industriale per le aziende comprate? A prima vista la risposta è sì: i ricavi delle imprese scambiate tra fondi sono saliti del 7,6%. Più dei mercati di riferimento (+5,4%), ma non in modo così eclatante. A livello di marginalità, il contributo dei fondi è stato invece più ridotto (+10,3% la crescita media annua del Mol contro un +10,1% del mercato). La creazione di valore si apprezza di più guardando alla marginalità sui ricavi (+3,8% ogni anno contro un mercato negativo), e tuttavia appare sproporzionata a quanto però le aziende sono state poi rivendute. Fatto 100 infatti il valore del Mol in un’azienda, significa che i fondi in media sono entrati a 600 (sei volte il Mol) e sono usciti a 900 (nove volte il Mol). un incremento del 50%, molto più del valore medio creato dentro le aziende dove il margine operativo lordo aggregato è salito negli stessi anni, sotto la gestione del private equity, del 18 per cento. Crescita c’è sì stata, ma le valorizzazioni sono state esagerate: nel caso di Selenia, già Vestar aveva pagato la società 9,5 volte il Mol, quando poi è subentrata Kkr il moltiplicatore è salito ancora a sfiorare le 10 volte: vero è che anche la marginalità di Selenia negli stessi anni è salita (il Mol è passato da 74 a 85 milioni). In alcuni casi, come Rodriquez Cantieri Navali, Sirti, Italmatch e Gruppo Lince, il Mol è addirittura sceso oppure rimasto pressoché fermo (Aeb, Gardaland, Grandi Navi Veloci), ma i multipli sono saliti lo stesso (quello di Rodriquez è triplicato da un passaggio all’altro). Tra i casi più controversi c’è Seat Pagine Gialle, comprata e rivenduta dai fondi (in parte gli stessi) per due volte nell’arco di sei anni. Ma il secondo releveraging (ossia acquisizione scaricando il debito sulla società stessa) ha portato, almeno finora (in attesa di vedere come e quando ci sarà un’uscita), a una perdita di valore (borsistico). Nel 2003, anno in cui i fondi sono entrati per la seconda volta in Seat, l’azienda di elenchi telefonici e informazioni commerciali valeva tra i 35 e i 40 centesimi per azione. Oggi appena 5: nel 2008 Seat ha bruciato il 78% del proprio valore e i soci sono stati chiamati a immettere altro denaro dentro l’azienda. «Il private equity porta anche benefici intangibili dentro le aziende - spiega Giovanni Calia, managing partner di L.E.K. Consulting - come l’introduzione di una corporate governance e una cultura manageriale, di cui le imprese italiane familiari sono carenti» e che i soli multipli non evidenziano. E se un fondo compra da un altro è perché ritiene che ci sia ulteriore valore da creare, altrimenti non avrebbe interesse a investire, è il commento diffuso di molti operatori quando si chiede conto della sproporzione dei multipli e l’effettivo valore industriale creato. Ma, rivela un gestore che chiede l’anonimato, in un mercato dove tutto saliva indistintamente e, a parità di risultati, i multipli erano in costante ascesa, i passaggi tra i fondi sono stati, in molti casi, una sorta di "scambio di figurine", dove ognuno era certo di poter rivendere a un altro compratore a un prezzo più alto di quello a cui era entrato. Negli anni d’oro del private equity, c’era da guadagnare, e tanto, per tutti. I fondi, i loro sottoscrittori, banche, advisor e il mercato (in caso di acquisizioni di aziende quotate). L’euforia da M&A e il boom dei fondi ha però anche caricato l’azienda Italia di debiti, che per le aziende oggetto di secondary buy-out è raddoppiato (da 1,4 a 2,8 miliardi a livello aggregato). Nulla di scandaloso in sè, visto che la filosofia d’investimento del private si basa sul debito. In alcuni settori, che ben sopportano un alto indebitamento perché generano alti flussi di cassa, o in fasi di espansione dell’economia, il meccanismo della leva può anche diventare virtuoso. Se due anni fa, in tempi di tassi bassi e liquidità in sovrabbondanza, il debito non era un problema, e anzi chi non si indebitava veniva tacciato di avere una struttura finanziaria inefficiente, oggi il quadro si è totalmente ribaltato: il credit crunch restringe l’accesso ai finanziamenti e in un clima di recessione (e quindi di bassa marginalità), lo stesso ammontare di debito diventa un fardello molto più pesante per una società. Simone Filippetti Morya Longo