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 2008  dicembre 30 Martedì calendario

Il Sole-24 Ore, martedì 30 dicembre 2008 Era uno dei miti dell’America, Detroit, la capitale mondiale dell’automobile, vivaio e fucina di un’industria in cima per tanto tempo al firmamento delle quattro ruote, e ora piegata sulle ginocchia: tanto da dover dipendere, per la sopravvivenza di due suoi colossi (la General Motors e la Chrysler), dai soccorsi decisi in extremis dalla Casa Bianca e dal Tesoro, dopo il "no" del Senato a un piano di aiuti per salvare il salvabile

Il Sole-24 Ore, martedì 30 dicembre 2008 Era uno dei miti dell’America, Detroit, la capitale mondiale dell’automobile, vivaio e fucina di un’industria in cima per tanto tempo al firmamento delle quattro ruote, e ora piegata sulle ginocchia: tanto da dover dipendere, per la sopravvivenza di due suoi colossi (la General Motors e la Chrysler), dai soccorsi decisi in extremis dalla Casa Bianca e dal Tesoro, dopo il "no" del Senato a un piano di aiuti per salvare il salvabile. Senza poi contare che il destino della Ford, l’altra delle tre Big di Detroit, è appeso a un filo che prima o poi potrebbe spezzarsi. E dire che proprio quest’anno la "Motor City" americana avrebbe festeggiato due eventi che, esattamente un secolo fa, avevano tenuto a battesimo le sue fortune: l’uscita dalle officine della Ford del leggendario "modello T", la prima vettura prodotta in serie; e la nascita della General Motors (dalla fusione di Buick, Cadillac, Oakland e Oldsmobile), destinata ad affermarsi nella realizzazione di auto di media e grossa cilindrata, sotto le insegne (dal primo dopoguerra) della famiglia Du Pont, leader della chimica. Già a quel tempo Detroit era una città-fabbrica per eccellenza. E questo suo ruolo venne consacrato qualche anno dopo a livello mondiale, in quanto fu la prima a collaudare, nello stabilimento della Ford e poi negli altri, la pedagogia dell’ingegnere Frederick Winslow Taylor («one man one job»), per ottenere, dalla scomposizione del ciclo lavorativo in mansioni sempre più standardizzate affidate a ogni singolo operaio, un maggior rendimento per unità di prodotto. Di qui l’esordio della "catena di montaggio", di un grosso convogliatore a flusso continuo dei vari pezzi del telaio di una vettura, sino alla sua confezione definitiva. Ciò che rivoluzionò non solo il modo di produrre un’auto ma pose le basi, negli anni successivi, anche in altri settori di quella che venne chiamata «l’organizzazione scientifica del lavoro» e che raccolse ferventi ammiratori pure al di fuori dei Paesi capitalistici. Al punto che la Russia di Stalin cercò di emularla, senza peraltro riuscirvi. Ma non soltanto per un sistema d’impresa all’avanguardia la stella di Detroit brillava con una luminosità senza uguali rispetto ad altre roccaforti industriali dell’Occidente. Quel che distingueva la sua industria automobilistica (nell’ambito della quale figurava dal 1925 anche l’azienda creata da un ex ferroviere di origine tedesca, Walter Chrysler) era inoltre un maggior livello dei salari operai, da quando Henry Ford aveva asserito che in tal modo i propri dipendenti avrebbero avuto i soldi necessari per acquistare a rate una delle auto che producevano a costi unitari decrescenti e, quindi, con prezzi di vendita sempre più bassi. Perciò, a Detroit, aveva avuto i natali anche una nuova filosofia sociale, l’equazione fra consumismo e benessere, destinata a dar vita alla "way of life" americana. Quel sogno svanì dopo la grande crisi del 1929, che non solo sconvolse l’industria automobilistica americana, gettando sul lastrico quasi metà dei suoi 400mila addetti; ma mise a repentaglio anche i suoi tratti distintivi, quelli che si basavano sul convincimento che la produzione in grande serie, il perfezionamento tecnologico e le economie di scala fossero la chiave di volta dell’industrialismo. Tant’è che Henry Ford giunse nel 1933 a sostenere, in sintonia con il presidente Roosevelt, l’esigenza di un «ritorno alla terra» e, quindi, la prospettiva di una scomposizione dei maggiori complessi industriali e il trasferimento dei loro vari tronconi nelle aree rurali: come se le auto dovessero in futuro crescere nei campi e con il lavoro part-time dei contadini. Proprio lui che aveva frattanto impiantato un nuovo grandioso stabilimento a River Rouge. Di fatto, a risollevare le sorti dell’industria automobilistica fu la sua conversione alla produzione di quasi ogni genere di armamenti, dopo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti nel dicembre 1941 contro le potenze dell’Asse: tanto che essa divenne il fulcro dell’"arsenale della democrazia", come gli Stati Uniti sarebbero poi passati alla storia. Dagli anni 50 in avanti, dopo che la General Motors era balzata in testa superando la Ford, e sulla scia di un’impetuosa motorizzazione di massa, quella di Detroit fu un’autentica marcia trionfale. Tant’è che entro le sue mura venne crescendo un’infinita costellazione d’imprese complementari e dell’indotto, con un sovraffollamento della città e dei suoi sobborghi tale da determinare, fra tensioni sociali e razziali, l’esplosione nel 1967 di una sanguinosa rivolta della comunità di colore, protrattasi per parecchie settimane. E se dagli anni 70 cominciarono a farsi sentire sia la concorrenza sempre più agguerrita delle imprese robotizzate giapponesi, sia le conseguenze del vertiginoso rincaro dei prezzi petroliferi, non per questo le "Grandi Sorelle" del Michigan si preoccuparono più di tanto. Continuarono perciò a sfornare modelli divenuti intanto sempre più mediocri ma con costi crescenti e, per il resto, a inglobare o a disputarsi alcune firme dell’industria europea. Già nel corso degli anni 90 si erano moltiplicati i sintomi di una crisi non più congiunturale ma strutturale delle tre Big di Detroit; ma esse ritennero, sbagliando i loro calcoli, di potersela cavare con l’allestimento di Suv, di "mega fuoristrada". Tant’è che quella di oggi è, in sostanza, l’epilogo di una lunga parabola declinante, oltre che dell’industria automobilistica statunitense, anche di un’epoca storica del neocapitalismo americano. Valerio Castronovo