Federico Fubini, Corriere della Sera 31/12/2008, 31 dicembre 2008
DAL NOSTRO INVIATO
CHHOUK (Cambogia) – Sotto le case a palafitte, a due passi dal Mar cinese meridionale, tre anatre dai giorni contati tentano una serie di corsette isteriche. Choo Sok, 60 anni, e Ann Haiya, 36, quasi le pestano passandoci accanto e sanno bene cosa le aspetta: i contadini stanno uccidendo gli animali uno a uno per sopravvivere. La loro terra, quella a cui 132 famiglie stremate approdarono nel ’79 quando si disfece il regime di Pol Pot, ormai è sbarrata dietro chilometri di filo spinato.
La stessa scena si ripete da due anni in centinaia di luoghi così: l’esercito requisisce i terreni, brucia, spara, a volte ferisce e uccide, in questo caso per conto un senatore del partito al potere di nome Ly Yong Phat. Secondo l’alto commissario ai diritti umani dell’Onu e Amnesty International, in centinaia di migliaia rischiano di perdere casa e fonti di sussistenza. E dire che per il popolo degli acquitrini questa doveva essere l’ora del riscatto. Nel 2008 gli indici di Borsa nel mondo si sono dimezzati, il valore delle banche è polverizzato, l’industria vacilla e il petrolio sprofonda. Ma i contratti
future al Chicago Board of Trade registrano ancora rincari del 50% sul 2007 per il bene che arriva da questo consunto gruppo di palafitte nella provincia di Koh Kong. «Non so cosa succeda alla Borsa delle materie prime – nota Ann Haiya, il capo del villaggio ”. So che il riso si vende meglio di due anni fa». Qui e altrove in un regno in cui metà dei sudditi produce riso grezzo per 1,5 euro al giorno, dal 2006 fino a metà 2008 il prezzo di un ettaro è raddoppiato ogni sei mesi. Ora si è stabilizzato, non è crollato come quasi ogni altra risorsa al mondo.
Nel contagio globale, la terra resta la prima e l’ultima certezza: naturale che i fondi sovrani arabi o asiatici, quelli prima deprecati e poi invocati dall’Occidente, ormai a Wall Street preferiscano Chhouk, Cambogia meridionale. Più solidi i campi dove i bufali d’acqua tirano ancora l’aratro, che un ufficio a un cinquantesimo piano di New York. Più saggio prevenire un altro elettrochoc sui prezzi del cibo, come quello che mesi fa rovesciò in piazza migliaia di immigrati a Dubai, Doha o Kuwait City, che credere ancora alla finanza virtuale.
A Chhouk non c’è televisione, perché non arriva l’elettricità. Ma Ann Haiya con interesse ha sentito dire all’assemblea della comunità rurale che il Qatar vuole investire 200 milioni di dollari nel riso cambogiano. Anche dalla Malesia, dall’Indonesia, dalla Cina e da Singapore piovono da mesi offerte e operazioni per la terra di un Paese dove – stima la Fao – oltre un bambino su tre è ancora malnutrito. Prima di restare senza terra, le famiglie del Koh Kong mangiavano metà del loro riso e vendevano l’altra metà. Questo mese, invece, il premier Hun Sen andrà a Doha a discutere un vasto accordo per coltivare l’area sudoccidentale della Cambogia, non lontano da qui, a favore del Qatar. Il Kuwait ha offerto anche di più: 356 milioni di prestiti «morbidi», parte a interessi simbolici e ritardati, parte dono. Da soli i due regni del Golfo promettono a Phnom Penh quasi tanti aiuti quanto il resto del mondo, Cina ovviamente esclusa visto che è Pechino l’avversario da battere.
Tutto in realtà era partito con qualche opera di bene: a inizio decennio, i signori del petrolio iniziarono a regalare centinaia di piccole moschee ai Cham, i musulmani del Mekong negli anni ’70 decimati dai khmer rossi. Oggi bizzarre imitazioni in sedicesima dei luoghi sacri della Mecca spuntano fra le marce baraccopoli, annidate lungo le rive del fiume ai margini di Phnom Penh. Ma è così che i donatori arabi hanno intuito per la prima volta che questo sarebbe potuto diventare il loro «granaio dell’impero», quella risiera che il deserto non potrà mai garantire loro.
San Vanty, sottosegretario di Stato all’Agricoltura, è appena rientrato da un giro di negoziati a Kuwait City. Vanty è un uomo giovane, 35 anni al massimo, selezionato per condurre le trattative con gli investitori arabi grazie all’ottimo inglese: risorsa scarsa in un regno prima oppresso dai fanatici marxisti della giungla, poi dai vietnamiti filosovietici. «Dovetti chiedere un’eccezione a scuola e concludemmo un accordo: ogni ora di studio con profitto, un barattolo di riso ». L’unica imprudenza del sottosegretario è un grosso anello d’oro incastonato di diamanti all’anulare sinistro, per il resto «Sua eccellenza» Vanty è l’incarnazione della cautela burocratica. Se i contadini protestano per le requisizioni, dice, «a volte è perché si insediano nei latifondi per reclamare un indennizzo ». Quanto ai patti con il Kuwait, «non daremo concessioni, solo vendite di riso a contratto ai prezzi di mercato del momento ». Suos Yara, consigliere economico dei vertici di governo, non esclude invece affitti per decine di anni o concessioni latifondiste: perché altrimenti gli emirati sarebbero tanto generosi?
Entrambi, però, concordano su un punto. I petrodollari dei nuovi capitalisti di Stato serviranno a restaurare parte della rete idrica, più di mille canali, che Pol Pot fece scavare a un popolo ridotto in schiavitù. Quell’ossessione del «fratello numero uno» costò centinaia di migliaia di vite. Ma ora Hun Sen, premier dall’85 dopo un passato fra i khmer rossi, punta a raddoppiare così la superficie irrigata, far esplodere il prezzo della terra e trasformare la Cambogia in una superpotenza globale del riso: il premier parla già di creare un «cartello dei produttori» in stile Opec.
La storia sinistra di quei canali in realtà non spaventa neanche Am Sokha, un giurista di 42 anni del Community Legal Education Centre che aiuta i contadini spossessati delle terre dai latifondisti esteri e dagli oligarchi: «Da bambino scavai quei fossati, ero un prigioniero a una ciotola di riso al giorno. Mangiavo scarafaggi, bisce, erbe del bosco. Dormivo sotto un albero. Ma perché ora non dovremmo approfittare di quella rete idrica, se lo si fa in modo legale?» La smania di agganciare i mercati globali cancella qualunque dubbio. Eppure quel-l’offerta araba sembra aver precipitato per la Cambogia una resa dei conti fra passato e presente di cui i canali di Pol Pot sono solo una metafora. Il filo spinato, le espulsioni, i contadini ridotti a profughi sulla loro terra: niente di tutto questo non sarebbe possibile se i khmer rossi non avessero distrutto ogni titolo di proprietà. Dall’89 la legge in teoria protegge l’usufrutto, ma Ann Haiya e gli altri a Chhouk non hanno mai ricevuto una carta che dia conto dei loro ultimi trent’anni di vita.
«Questa è una terra spezzata e una società spezzata. La globalizzazione crea una pressione a cui non siamo pronti», dice Chhang Youk. Direttore del centro di documentazione di Phnom Penh, formatosi a Yale, Chhang fu torturato da bambino per aver rubato della frutta per la sorella incinta, che venne uccisa. Oggi vede la violenza riemergere attorno alla terra, e certi aguzzini di allora mirabilmente riassorbiti nel tessuto del potere e degli affari. Oltre al premier, il ministro degli esteri Hor NamHong è stato accusato dal re di essere un ex khmer rosso; Y Chhien, guardia del corpo di Pol Pot, controlla hotel e casinò e governa la provincia di Pailin. «Spero che questi investitori esteri abbiano un piano – nota Chaang – oppure fra dieci anni questo Paese può finire all’inferno».
La previsione
«Spero che gli investitori esteri abbiano un piano, altrimenti fra dieci anni questo Paese può andare all’inferno», dice Chaang Youk
Federico Fubini