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 2008  dicembre 31 Mercoledì calendario

Cosa accomuna la famiglia Bin Laden, il Kuwait e le multinazionali cinesi, poi l’Egitto, i gruppi privati indiani e Morgan Stanley, Deutsche Bank e Goldman Sachs? Dall’altro lato della scacchiera, è lo stesso filo che collega Paesi mai prima entrati in contatto: dalla Cambogia al Madagascar, dalla Birmania al Sudan, ma anche Kazakhstan, Mozambico, Filippine, Laos, Tanzania, Indonesia, Uganda

Cosa accomuna la famiglia Bin Laden, il Kuwait e le multinazionali cinesi, poi l’Egitto, i gruppi privati indiani e Morgan Stanley, Deutsche Bank e Goldman Sachs? Dall’altro lato della scacchiera, è lo stesso filo che collega Paesi mai prima entrati in contatto: dalla Cambogia al Madagascar, dalla Birmania al Sudan, ma anche Kazakhstan, Mozambico, Filippine, Laos, Tanzania, Indonesia, Uganda.  il sentiero del cibo, la rincorsa alla sicurezza alimentare in un mondo colpito dagli choc in serie degli ultimi dodici mesi: prima quello sui prezzi delle risorse, poi il blocco alle esportazioni di derrate di base da parte dei produttori in Asia e buona parte dell’America Latina; infine, la paralisi del sistema finanziario. Vero, ogni operazione è diversa nei modi e negli obiettivi e gli investimenti internazionali non sono per forza sinonimo di abusi e sfruttamento. Possono esserlo anche di sviluppo e opportunità. Certo l’accordo da 4,3 miliardi di dollari siglato in agosto dal gruppo Bin Laden in Indonesia, mezzo milione di ettari a riso basmati da garantire all’Arabia Saudita, non ha nulla a che vedere con quelli delle grandi banche. Anche i Bin Laden si muovono per il profitto, ma sono sospinti e incoraggiati dalle esigenze di fornitura alimentare del governo di Riad. Tutti gli altri Paesi del Golfo del resto fanno lo stesso, dal Qatar in Cambogia, al Kuwait nello Yemen (dove investe in allevamenti di pollame), nel Laos oppure in Uganda. Anche così i signori del Golfo sperano di comprare la stabilità sociale dei loro immigrati d’Asia centrale, quelli che costruiscono le loro nuove città, e controllano l’inflazione. Per le banche, invece, la terra è in primo luogo una polizza contro la recessione e una nuova fonte di reddito futuro: secondo il centro-studi internazionale «Grain», negli ultimi mesi Morgan Stanley ha acquisito un latifondo da 40 mila ettari in Ucraina, Deutsche Bank e Goldman Sachs hanno investito in allevamenti di suini e pollame in Cina, il gruppo BlackRock ha creato un fondo «private equity» da 200 milioni di dollari ad hoc per gli investimenti in agricoltura. Se i prezzi del cibo non crollano come quelli del petrolio, del resto un motivo c’è. Valerie Guarnieri, direttrice al World Food Programme dell’Onu, spiega che la domanda mondiale può solo continuare a crescere con le bocche da sfamare, la crescita nei Paesi emergenti, il cambio climatico e la scarsità d’acqua. Sono questi i fattori che scatenano la caccia dei governi alla sicurezza alimentare e garantiscono il valore degli investimenti nella terra fertile. Così la democratica India finanzia la giunta militare birmana per modernizzare i porti e assicurarsi i 5% del suo fabbisogno di lenticchie. Così gli emirati del Golfo agiscono quasi ovunque in Asia, mentre la Cina è presente in Africa e nell’Asia del Sud-Est. La corsa al controllo delle derrate all’estero è solo l’ultima svolta dell’economia globale. In alcuni esempi è violenta: come in Laos, dove chi protesta per il sequestro della terra a favore degli investitori cinesi viene rapidamente fatto sparire. In altri vengono presentate invece promesse di equità, soprattutto da parte degli emirati del Golfo in Pakistan o nel Sudan. in ogni caso un’ondata di delocalizzazione della produzione alimentare, che fa seguito a quella industriale dell’ultimo decennio. Se ora accelera, è perché i governi hanno perso fiducia nel libero scambio e il fiasco dei negoziati del Doha Round dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) non fa nulla per farli ricredere. Ma stavolta la nuova ondata integra nel circuito Paesi che fin qui erano rimasti ai margini. La Cambogia ne è solo un esempio: l’ex «geco» fra le tigri d’Asia ha mancato il boom delle fabbriche a basso costo, ma ora favoleggia di farsi potenza agricola. Phnom Penh, i suoi contadini e milioni come loro nel mondo rischiano di finire espropriati e immiseriti: non tutti possono comprarsi il cibo sui mercati globali. Jacques Diouf, direttore generale della Fao, avverte contro i rischi di «neocolonialismo ». E la Banca mondiale ricorda che, in condizioni di arretratezza, i piccoli appezzamenti producono più dei latifondi e danno più lavoro. Per l’Europa divisa fra complessi coloniali e nostalgia dei «buon selvaggio», quello che non fa concorrenza, sperare che un’economia di sussistenza rimanga tale è facile. Si può così stigmatizzare l’aggressività di Riad, di Pechino o di Wall Street. Non ci si può però illudere che anche gli agricoltori dell’Uganda (corteggiati dall’Egitto) o quelli del Madagascar (conquistati dalla coreana Daewoo) non abbiano bisogno di investimenti e accesso ai mercati. L’alternativa, per i produttori di riso di Vercelli o di vitelli della Savoia, sarebbe abbattere le loro barriere. Se sono pronti a farlo. Il controllo La grande corsa al controllo delle derrate all’estero è l’ultima svolta dell’economia globale F. Fub.