Annuario Panorama 2008, 30 dicembre 2008
In giugno c’è una donna che racconta una verità su Emanuela Orlandi a cui i giudici della procura di Roma guidati da Giovanni Ferrara, almeno in parte, credono
In giugno c’è una donna che racconta una verità su Emanuela Orlandi a cui i giudici della procura di Roma guidati da Giovanni Ferrara, almeno in parte, credono. Emanuela Orlandi è quella ragazza di 15 anni che sparì verso le sette di sera del 22 giugno 1983. Era appena uscita da una lezione di musica nella chiesa di Sant’Apollinare in Roma, fu avvicinata da uno sconosciuto, salì su una Bmw scura e non riapparve mai più. Lo sconosciuto venne poi identificato per Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei boss della banda della Magliana. La famiglia Orlandi invase Roma (e lo ha fatto ancora nel giugno 2008) con manifesti in cui si vede Emanuela sorridente, con una fascia intorno alla fronte. Una bella ragazza che, grazie anche a quei poster, è entrata nel nostro immaginario. La donna che adesso parla viene da una comunità di tossicodipendenti, dove sta tentando di guarire dalla dipendenza da cocaina. Si chiama Sabrina Minardi, è stata la moglie del centravanti della Lazio Bruno Giordano e, soprattutto, l’amante di De Pedis, il Renatino che avrebbe sequestrato Emanuela 25 anni fa. La decisione di parlare solo adesso, molti l’hanno intesa come il tentativo di aiutare la figlia Valentina (avuta con Giordano nell’81) dopo l’episodio di cronaca nera che l’ha coinvolta nella notte di giovedì 22 maggio quando era sulla Mercedes guidata dal fidanzato Stefano Lucidi il quale, non fermandosi a un rosso di via Nomentana (Roma), aveva travolto e ucciso due ragazzi su uno scooter. Sabrina dice che la ragazza venne rapita per ordine di un cardinale americano, tenuta prigioniera in un sotterraneo dalle parti dell’ospedale San Camillo e uccisa non si sa come, poi il corpo rinchiuso dentro un sacco e gettato in una betoniera di Torvajanica. La Minardi avrebbe partecipato in prima persona all’operazione: una domenica di sette o otto mesi dopo il sequestro, stava in un ristorante di Torvajanica che si chiama Pippo l’Abruzzese. Con lei c’era questo suo amante malavitoso, Renatino. A un certo punto arrivò al ristorante un tizio che si chiamava Sergio e che era quello che aveva guidato la Bmw del sequestro. Costui aveva in macchina due sacchi. Si fece accompagnare da De Pedis e dalla Minardi a un cantiere e buttò i due sacchi in una betoniera. La Minardi dice anche che nei due sacchi c’erano i corpi della Orlandi e del bambino Domenico Nicitra. E questo è il grande punto debole del racconto, perché Domenico, figlio undicenne di Salvatore Nicitra, imputato al processo alla banda della Magliana, scomparve a Roma assieme allo zio Francesco soltanto nel giugno 1993. Ma il filo rosso della testimonianza della Minardi gira intorno ad un altro solido puntello. Due mesi dopo, ad agosto, quando un altro testimone anonimo guida gli inquirenti verso una macchina ferma dal 1995 nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese. Ed è proprio una Bmw 745i grigio scuro, la stessa di cui aveva parlato la Minardi due mesi prima e, secondo Visto, il settimanale che ha fatto lo scoop, «dai primi accertamenti risulta che il primo proprietario dell’auto sia stato Flavio Carboni, l’imprenditore indagato e poi assolto nel processo di primo grado nell’inchiesta sulla morte del banchiere Roberto Calvi». Il cardinale americano responsabile del sequestro sarebbe monsignor Paul Marcinkus, il capo dello Ior, cioè la Banca Vaticana, detto il ”banchiere di Dio”, un uomo immischiato in traffici poco chiari sia con Roberto Calvi che con la stessa banda, morto (esiliato in Arizona) nel 2006. Secondo la Minardi all’origine del rapimento ci sarebbe il debole di Marcinkus per le ragazzine. «Io a monsignor Marcinkus a volte portavo anche le ragazze lì, in un appartamento di fronte, a via Porta Angelica... Sarà successo in totale quattro o cinque volte, tre-quattro volte... Lui era vestito come una persona normale. L’iniziativa partiva da Renato. C’era poi il segretario, un certo Flavio. Mi telefonava e mi diceva: ”C’è il dottore che vorrebbe avere un incontro”. Embè, me lo faceva capire al telefono. Poi, a lui piacevano più signorine (’minorenni, no”)! Quando entravo, vedevo il signore. Non che mi aprisse lui, c’era sempre questo Flavio». Secondo Otello Lupacchini, giudice istruttore nel processo alla banda della Magliana e giudice per le indagini preliminari nel processo sulla morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, il quadro sarebbe invece questo: «Cosa Nostra investe denaro nelle spericolate operazioni finanziarie di Roberto Calvi. Calvi muore a Londra (giugno 1982) e i soldi diventano non più esigibili. Un’organizzazione che controlla il territorio come la banda della Magliana, a questo punto, può effettuare il sequestro della figlia di un dipendente del Vaticano o può decidere di ”gestire” il sequestro. Il Vaticano, tramite lo Ior diretto da monsignor Marcinkus, aveva investito copiosi capitali nell’Ambrosiano. Il sequestro poteva essere un modo, da parte della banda della Magliana per conto della mafia, per ricattare, per rivalersi su una sorta di ”socio” del debitore Calvi». Il Vaticano ha accreditato per anni la tesi che gli autori del sequestro fossero i Lupi grigi turchi, i quali volevano scambiare Emanuela con il mancato assassino del Papa, Ali Agca. Emanuela era la quarta figlia di un impiegato della Santa Sede, Ercole Orlandi, morto nel 2004, il cui lavoro consisteva nel tenere il registro delle visite al Pontefice. Del tutto esclusa perciò l’ipotesi del sequestro di persona per ottenere un riscatto (e infatti riscatti non ne furono mai chiesti). Il processo si chiuse nel 1997 con la constatazione che «non vi è alcuna prova del complotto terroristico». Di Emanuela Orlandi non si seppe più nulla fino al 2005, quando alla redazione di Chi l’ha visto? arrivò una telefonata anonima. La voce diceva che per trovare i resti di Emanuela bisognava andare a guardare nella tomba di Renatino, che intanto era morto nel 1990 ammazzato da due sicari. Nel 1997, Antonella Stocco del Messaggero aveva scoperto che la tomba di De Pedis era stata sistemata, in modo incredibilmente inusuale, nella basilica di Sant’Apollinare, la chiesa da cui Emanuela era uscita la sera della sua scomparsa. Una scelta che il Vaticano ha (debolmente) attribuito alle iniziative del boss «per la formazione cristiana e umana dei giovani» e alle sue «iniziative di bene» e che potrebbe invece tradire la volontà di tenere la bara sotto controllo. Nel 2005 il Vicariato di Roma non autorizzò la riesumazione del cadavere. Adesso la Santa Sede, con padre Federico Lombardi, ha fatto sapere che il Vaticano «non vuole in alcun modo interferire con i compiti della magistratura».