Marco Del Corona, Corriere della Sera 30/12/2008, 30 dicembre 2008
PECHINO
Per le navi da guerra mandate a tenere a bada i pirati somali l’Africa è ancora lontana: ieri hanno imboccato lo Stretto di Malacca e il viaggio resta lungo. Ma la Cina in Africa c’è già, è una grande scommessa e, con la crisi che corrode le sicurezze di Pechino, i successi commerciali nel continente possono attenuare le preoccupazioni.
Gli scambi tra la Repubblica Popolare e l’Africa, dove sono attive oltre 800 aziende di Stato cinesi, toccheranno nel 2008 i 100 miliardi di dollari, nel 2000 il miliardo era solo uno. L’incontro fra la Cina e i Paesi in via di sviluppo, tuttavia, va oltre i conti e supera l’interesse immediato per il ferro del Gabon o il greggio angolano. Pechino in Africa non si accontenta di esportare un modello – infrastrutture, assistenza e una generosa sponda diplomatica in cambio di materie prime, magari tollerando discutibili standard in materia di diritti umani – ma anche manodopera. E contadini.
Decine di migliaia di agricoltori che le autorità di Pechino inviano nei Paesi africani, secondo la sintesi formulata da Liu Jianjun, della camera di commercio sino-africana: «In Cina siamo in troppi e abbiamo troppo poca terra coltivabile».
Ognuno fa il suo. Quello che Liu ha sviluppato in una decina d’anni è un sistema di villaggi, ribattezzati «villaggi Baoding» dal nome della cittadina dell’Hebei nella quale vive, dove gli immigrati cinesi si concentrano, che sia il Kenia o il Sudan. Se risiedano o finora abbiano risieduto in Africa almeno 750 mila cinesi, 10 mila sono i contadini dell’Hebei spediti a irrigare, zappare e far fruttare campi in 18 Paesi diversi.
Un certo signor Dong ha raccontato al Global Times la sua storia esemplare di contadino che ha lasciato la Cina nel maggio del 2005 per il Sudan arrivando a guadagnare «tre volte quanto guadagnavo a Pechino ». E poiché chi si ferma è perduto, Dong già all’inizio dell’anno pensava a una nuova meta, il Sudafrica, dove sarebbero 20 mila i cinesi giù residenti. «C’è un sacco di terra e i contadini sono pochi, in Africa», ha spiegato Liu Juanjun all’Independent di Londra, portando l’esempio della Costa d’Avorio, «dove mancano 400 mila tonnellate di cibo l’anno e i contadini indigeni da soli non ce la fanno a nutrire la popolazione ».
Ecco, allora, gli agricoltori cinesi pronti per l’uso. Una risorsa che in prospettiva potrebbe tornare utile ora che le fabbriche votate all’export a basso costo smobilitano e centinaia di migliaia di operai tornano nei loro villaggi dell’interno, senza più arte né parte (un dato: a Dongguan, capitale dei giocattoli, 1.800 delle 3.800 aziende del settore han chiuso o stanno per farlo).
Di fronte ai guadagni africani, migliaia di euro l’anno, anche le diffidenze si attenuano, benché Liu lambisca pericolosamente il politicamente scorretto dichiarando che i contadini africani «sono un po’ pigri, preferiscono raccogliere la frutta dall’albero piuttosto che coltivarla ». I problemi, agricoltura a parte, non mancano. Lo scorso aprile la Cina ha rimpatriato dalla Guinea Equatoriale circa 400 lavoratori dopo che due cinesi erano stati uccisi in un incidente scoppiato durante uno sciopero di dipendenti locali, in aprile una protesta aveva paralizzato impianti cinesi in Zambia, ma ci sono anche l’intolleranza nei confronti del dinamismo imprenditoriale dei cinesi, specie nel caso di piccoli esercizi commerciali, e l’irritazione per i salari concorrenzialmente bassi accettati dai lavoratori cinesi: è il caso dell’Algeria (19 mila cinesi nel 2007), dove i muratori cinesi impiegati da aziende cinesi decidono spesso di fermarsi, a lavori conclusi, e aprire attività in proprio.
economia, quindi è politica. A novembre Wu Bangguo, il presidente del Parlamento, ha trascorso due settimane in Africa. Algeria, appunto, Gabon, Etiopia (con visita all’Unione Africana), Madagascar. Ovunque bandierine, feste e accordi commerciali. L’ultima tappa erano state le isole Seychelles. E non era stata una vacanza. Neppure lì.
Marco Del Corona