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 2008  dicembre 29 Lunedì calendario

Lunedì 10 marzo a Lhasa, capitale della provincia autonoma del Tibet, 500 monaci buddisti sfilano in corteo partendo dal monastero di Drepung

Lunedì 10 marzo a Lhasa, capitale della provincia autonoma del Tibet, 500 monaci buddisti sfilano in corteo partendo dal monastero di Drepung. Inneggiano al loro leader spirituale, il Dalai Lama, costretto all’esilio dal marzo 1959, data della fallita rivolta armata anti-cinese in Tibet. Allora i tibetani tentarono di armarsi contro le truppe cinesi, ma furono fermati. Conseguenza: il Dalai Lama lasciò il Tibet per andare a vivere in esilio a Dharamsala, in India. Nei cortei di questi giorni, con i monaci sfilano anche i civili. Il 14 marzo i manifestanti arrivano nei pressi del tempio Jokhang e trovano un migliaio di agenti in tenuta antisommossa a sbarrare loro la strada. Rispondono bruciando bandiere cinesi, auto della polizia, camion dell’esercito e negozi di cinesi di etnia han. Iniziano gli scontri più duri, i manifestanti vengono arrestati, picchiati, uccisi. I primi a morire sono una ragazza di 16 anni e un monaco. Cinque giorni prima, gli Stati Uniti avevano tolto la Cina dalla lista nera dei violatori dei diritti umani. Mancano cinque mesi all’inizio delle Olimpiadi di Pechino, sono passati 19 anni da piazza Tienanmen, la più grande crisi mai affrontata dal governo cinese. Le autorità accusano subito il Dalai Lama e «la sua cricca»: «Abbiamo le prove che il recente sabotaggio a Lhasa è stato organizzato e premeditato da loro». Il Dalai Lama risponde: «Queste proteste sono la manifestazione del risentimento profondo del popolo tibetano, mi appello ai leader cinesi affinché usino il dialogo». Manifestano sdegno e protestano tutti i politici del mondo, che minacciano di boicottare le Olimpiadi, mentre la rabbia tibetana contagia le comunità che vivono nelle province cinesi del Sichuan e del Gansu. Il Tibet, che dal XIII secolo in poi ha alternato periodi di indipendenza ad altri di dominio cinese, fu occupato militarmente dalla Repubblica Popolare nel 1950. Mao Zedong, spinto da considerazioni di natura geopolitica («La Cina ha tanta gente. Il Tibet ha tanto territorio. Dunque...»), lo voleva trasformare in un baluardo naturale contro eventuali invasioni da occidente, ma gli premeva anche appropriarsi di un altopiano e di montagne che rappresentavano una barriera di difesa dalle invasioni nemiche oltre che una riserva di ricchezza naturale (nascono qui i tre grandi fiumi d’Asia: il Gange, il Mekong e lo Yangtze). Per rendere cinese il Tibet sono stati portati nella regione cinesi han: oggi sono 8 milioni contro i 2,6 milioni di indigeni. La cultura e la lingua tibetane sono controllate e ostacolate, l’identità nazionale estranea alla storia han cancellata. Poi ci sono 500mila soldati cinesi e alcuni basi dotate di testate nucleari. La sinizzazione passa anche per altre vie: per esempio il progetto della linea ferroviaria che dal 1° luglio 2006 unisce (per 1.142 chilometri a un’altitudine media di quattromila metri), Golmud, nella Provincia del Qinghai, a Lhasa, passando per il tetto dei 5.067 metri del passo Tanggula. Oppure il progetto dell’autostrada che dovrebbe arrivare a 5.200 metri del campo base dell’Everest. Anche per questo i tibetani sono considerati dai cinesi degli ingrati: perché odiano chi porta loro il progresso e il benessere. Sui fatti di marzo la comunità internazionale si interroga: quanti morti? Quanti feriti? Quanti arrestati? Conoscere il bilancio delle proteste a Lhasa è impossibile. I tibetani parlano di più di 100 morti e di almeno duecento incarcerati. Diverse le cifre delle autorità cinesi: 8 morti, 328 feriti (tra cui 43 gravi); oltre a 1.360 negozi e 120 abitazioni distrutti. A loro dire vi erano già centinaia di ribelli nelle carceri del Tibet prima delle rivolte, a questi si sono aggiunti 950 arresti. Da allora i rilasciati sono stati più di mille. Nonostante le divergenze, governo cinese e Dalai Lama a un certo punto si sono trovati d’ac­cordo nel chiedere la fine delle violenze. Il primo ministro Wen Jiabao, in piena contestazione, annuncia: «Se il Dalai Lama rinuncia alla separazione e riconosce che il Tibet e Taiwan sono territorio della Cina le porte del dialogo restano aperte». Il padre spirituale tibetano, che già aveva detto di essere contrario alla secessione, con schiettezza promette le dimissioni «se i tibetani hanno scelto la via della violenza»: «Siamo completamente per la non violenza, occorre fermare le violenze sia dei cinesi sia dei tibetani». Da entrambi le parti, insomma, cè l’esigenza di spezzare le ali estremiste della protesta: gli Students for Free Tibet, gruppo indipendentista con parecchi sostenitori tra i giovani e i monaci tibetani, che contestano anche il Dalai Lama; e i nazionalisti han, sempre più spesso responsabili di rivolte rurali e di campagne contro la corruzione dei dirigenti locali del partito, o di quelle contro le restrizioni alla libertà religiosa e di espressione.