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 2008  dicembre 29 Lunedì calendario

il Giornale, lunedì 29 dicembre 2008 In questa casa nella campagna di Asti, col tetto spiovente e il gazebo di fronte, ho conosciuto molti anni fa Giorgio Conte

il Giornale, lunedì 29 dicembre 2008 In questa casa nella campagna di Asti, col tetto spiovente e il gazebo di fronte, ho conosciuto molti anni fa Giorgio Conte. Era un elegante principe del foro. Avevo bussato da lui per un articolo sul suo concittadino Gianni Goria che in quell’estate 1987 era diventato Presidente del Consiglio. Poiché i due, come si conviene tra maggiorenti astigiani, erano buoni amici, speravo di carpire qualche notizia inedita. Ne riempii un canestro. Ritrovo Giorgio Conte a 67 anni, cantautore a tempo pieno. Seguendo la vocazione di famiglia, 16 anni fa ha lasciato i codici per le canzoni. Oggi, è un tipo in carne che sa di bosco. Baffi a cespuglio, maglione blu mirtillo e, dalla cintola in giù, i colori delle Langhe: calzoni nocciola, qualità «gentile», scarpe caldarrosta. «Immagino detesti la banalità», dico mentre sediamo nello studio amabilmente campagnolo, con pianoforte e presepe natalizio. «Giusto. L’ovvio mi annoia», dice e, senza sospettare il senso della domanda, prosegue: «Rifuggo dai testi cosiddetti poetici. Nelle canzoni mi interessa raccontare episodi. Una delle mie protagoniste, la signorina Gnegné, è la regina delle banalità. Il tipo di ragazza che ti intrappola con la bellezza, ma il resto è zero. Alla mia età, in cui l’arma migliore è la parola, di fronte a una gnegné sei fritto». «Se odia l’ovvio, mi aiuti a non presentarla banalmente come il fratello minore del più noto Paolo Conte, 71 anni, celeberrimo cantautore», dico, scoprendo il gioco. «Sono rassegnato. Per variare però, eviti il superfluo ”più noto”. Basta dire, ”fratello di Paolo Conte”», raccomanda e prosegue: «Le racconto un episodio. In tournée in Sicilia, ero ospite di due anziane gentildonne che mi circondavano di premure. Nella confusione che seguì all’esibizione sono partito senza salutarle. Desolate, le signore telefonarono all’organizzatore pregandolo di mandare i loro rispetti al fratello di Carlo Conte...». «Equivocando tra Carlo Conti, il presentatore tv di Miss Italia, e Paolo Conte suo fratello?! Povero lei!», esclamo desolato. «Come vede ho toccato il fondo. Perciò, ho fatto il callo», prende un foglietto, lo riempie di tabacco e si torce una sigaretta. «Sembra che ci goda a confondere la sua immagine con quella di Paolo: stessi baffi, stessa aria da chansonnier...». «Non è calcolo, ma fratellanza anche fisica». «Entrambi ex avvocati». «Storie parallele. Ragioni di famiglia». «Chi dei due era più quotato nel Foro di Asti?». «Io ho praticato più a lungo la professione e col massimo della dignità. Ma non era la mia vocazione. Avevo più l’indole del notaio, come papà, nonno e zio. Ora, i miei due figli tornano all’antico e si avviano sulla perigliosa strada del concorso notarile», e in quel mentre entra una signora alta e sottile. «Mia moglie, ”Maichel”», dice presentandoci. Appena esce, chiedo: «Non è italiana?». «Astigiana, ma insegna inglese e io la chiamo ”Maichel”. Un nome che in inglese al femminile nemmeno esiste. Ma io non so l’inglese». «Per continuare il parallelo con Paolo, tutti e due musicisti. Eredità paterna», dico. «Papà era un grande pianista melodico, con venature jazz. Cantava canzoni bellissime». «Voi fratelli avete suonato insieme per anni». «Componendo canzoni per altri. Alcune del repertorio di Paolo le ho scritte io: Una giornata al mare, La Topolino amaranto». «Lei ha composto per Mina, Milva, Vanoni, Patty Pravo, ecc.». «Mai negato una canzone a nessuno. Quando, per troppe richieste, l’ispirazione ristagnava, arrivava il cavallo fresco (Paolo, ndr) a darmi una mano». Si distrae guardando dalla finestra i rami di un albero. «Carina quella cincia che si mangia le palle di grasso», dice. «Da voi crescono palle di grasso sugli alberi?». «Ma no! Le ho comprate e le ho messe». «Paolo è stato il primo a lasciare la toga per la musica». «Col ’68 ci fu una contestazione alla canzone. Dopo il Festival di Sanremo del ’69, in cui Fausto Leali cantò la mia Deborah, sembrava non ci fosse più posto per gli autori. Mancava la richiesta e i discografici intervenivano pesantemente su musica e testi. Paolo, stufo di compromessi, decise di affrontare il palcoscenico da solo. Io misi altri vent’anni a decidermi». «Suo quell’enorme successo anni ’70 di Non sono Maddalena, interpretato da Rosanna Fratello». «Mi ero ispirato alla Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Nel mio testo originale, la moglie tradiva di brutto un marito troppo assente. Ma, per adattarla a Sanremo, immaginai una moglie che, pure tentata, in extremis non tradiva e urlava a squarciagola la sua innocenza Non sono Maddalena, la mitica peccatrice biblica». «Da anni, lei e Paolo non vi esibite insieme». «Richieste, tante. Ma mi sono detto: Paolo ha una notorietà conclamata, se mi porta con sé sul palco sembra voglia lanciarmi. Una diminutio». «Ma anche lei è famoso! Da quando ha smesso la toga ha fatto più di trecento concerti tra Europa e Canada, dov’è celeberrimo. Sarebbe bello: Paolo al piano, lei alla chitarra». «Sono operazioni delicate. Ci vorrebbe una vera ragione artistica», dice e si capisce che non scalpita per accelerare l’evento. Siete rivali? «No. Il solo rimpianto è che un tempo eravamo un’unica persona e oggi mi è sfuggito di mano. Abitiamo a due passi, ma ci incontriamo come emigranti al rientro dalle rispettive tournée». Avete entrambi uno stile alla Georges Brassens. «Se si scava di più, si vede che siamo differenti. Lui è sempre più criptico. Vuole che le parole vadano d’accordo con la musica, al di là della decifrabilità. Ma anche se non si capisce, c’è sempre qualcosa che colpisce e commuove». E lei? «Sono addirittura troppo comprensibile. Difetto o punto di forza? Non so. So solo che voglio dire tutto. Paolo sostiene che non ho pudore. Lui è più riservato. Questione di carattere». Chi è più bravo? «Per me, lui. Però, dal punto di vista interpretativo, siamo bravi tutti e due. Da quello musicale, lui è più colto e ricercato. Io, come nei testi, sono musicalmente più semplice». Ha definito Paolo un Attila che le ha fatto attorno terra bruciata, artisticamente s’intende. «Una battuta. Io sono arrivato dopo in luoghi che lui aveva già espugnato. Ma questo ha destato curiosità su di me. Così, ho spigolato un po’ di bottino lasciato da lui». Il pubblico? «Ci sono appassionati che ci amano entrambi. Altri dicono che un Conte bastava. Quale, dipende dai gusti. Anche sulla scena siamo diversi». Ossia? «Lui si presenta in smoking, fa tre inchini e se ne va. Gelido. Io vengo in giacchetta, pantaloni di fustagno, intrattengo di più e coinvolgo». Paolo è più divo. «Esatto. Lui, lo perdono. Ma quelli che salgono sul palco con la spocchia, non li sopporto. A me piace passare una bella serata insieme». Pentito di avere abbandonato la toga? «Contento così. Mia moglie tremava all’idea. Ma io non ce la facevo più a reprimere la mia passione». Si considera incompreso in Italia? «No, ma non ho una platea abbastanza ampia. Frequentare la tv è pericoloso. Rischi ti mettano nella cornice sbagliata, infilato in una trasmissione di quiz. Gente giusta come Arbore o Mirabella ce n’è sempre meno». Ha scritto le prime canzoni in francese. Provincialismo astigiano? «Amore per il francese ed eredità familiare. I miei genitori scavalcavano le Alpi per sentire Josephine Baker o Charles Trenet».  comunque uno snobismo. «L’Italia dal punto di vista dei testi era un disastro, finché non sono arrivati i cantautori. L’ideale come lingua musicale sarebbe l’inglese, se lo sapessi. Quando invento una melodia, prima di scrivere il testo, la canto in un grammelot americano». Si fanno belle canzoni in Italia? «Una melassa conformista. Niente di cantabile. Mai una bella melodia con parole adatte. Una volta, le canzoni di Sanremo si fischiettavano per strada e ti sentivi arricchito». Nel resto del mondo? «Io sono rimasto ai Beatles. Dopo, è stato il diluvio». Come definirebbe la sua vena: romantica, comica o che? «Mi hanno definito un umorista che sa anche commuovere».  credente (gli indico il presepe), irridente o agnostico? «Credente con riserva. Mai irridente. Sufficientemente agnostico. Il presepe è un obbligo istituzionale imposto da una super conservatrice di nome ”Maichel”».  un buon marito o un crapulone? «Eilà! Crapulone che vuol dire: Bacco, tabacco o Venere?». Venere, Venere. «Sono un crapulone in disarmo e, giocoforza, un buon marito». Quale politico le piace di più? «Bella lotta! Casini è forse quello più gladiatore. Una specie di Di Pietro di centro. Il politico numero uno era Montanelli. Dopo di lui, niente». Da avvocato, sulla riforma della giustizia, sta più col ministro Alfano o Di Pietro? «Con Alfano. I giudici sono pericolosi. Ho visto certe robe, ragazzi! Diceva Calamandrei: ”I giudici cominciano uditori e finiscono sordi”». Cosa si augura dal 2009? «Metto da parte la mia allergia alle banalità e auspico una nuova era di normalità, pace e amore». Giancarlo Perna