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 2008  dicembre 29 Lunedì calendario

La notte tra il 5 e il 6 dicembre una violentissima vampata di olio e fuoco si sprigiona sulla linea 5 dell’acciaieria ThyssenKrupp, in corso Regina Margherita a Torino: la «nuvola di liquido caldissimo vaporizzato», come spiegheranno i medici legali, investe un gruppo di operai e fa una strage

La notte tra il 5 e il 6 dicembre una violentissima vampata di olio e fuoco si sprigiona sulla linea 5 dell’acciaieria ThyssenKrupp, in corso Regina Margherita a Torino: la «nuvola di liquido caldissimo vaporizzato», come spiegheranno i medici legali, investe un gruppo di operai e fa una strage. L’ennesimo incidente sul lavoro scuote il Paese, anche perché le sue proporzioni si fanno sempre più drammatiche con il passare dei giorni: alla fine le vittime saranno sette. Antonio Schiavone, 36 anni e tre bambini piccoli, è l’unico a morire subito, in fabbrica. Roberto Scola, 32 anni, nonostante le ustioni sul 95 per cento del corpo, arriva cosciente in ospedale e chiede di vedere i due figli, l’ultimo di 18 mesi: resiste fino all’alba del 7 dicembre. Angelo Laurino, 43 anni e due figli, muore poche ore dopo, Bruno Santino, 26 anni, il giorno seguente: anche per loro ustioni su tutto il corpo («erano intatte solo le piante dei piedi»). Più lunga l’agonia di Rocco Marzo, 54 anni, il capoturno avvolto dalle fiamme mentre si trovava per caso a quell’ora nel reparto: spira il 16 dicembre lasciando moglie e due figli. Tre giorni più tardi è il cuore di Rosario Rodinò, 26 anni, a cedere, nel letto di una clinica di Genova dove era stato ricoverato subito dopo la tragedia. Giuseppe Demasi, un altro ventiseienne, è l’ultimo ad andarsene, «senza soffrire e senza riprendere conoscenza» diranno i medici, il 30 dicembre al reparto grandi ustionati del Cto di Torino. Alla tragedia seguono subito polemiche enormi: gli estintori erano mezzi vuoti, il telefono per chiamare i soccorsi non funzionava, gli operai erano al lavoro da almeno dodici ore. Lo stabilimento di Torino era in chiusura: i tedeschi volevano dismettere Terni - dove lavorano 3.500 persone - e i sindacati li avevano persuasi a tenere in piedi il polo umbro e a rinunciare a quello torinese. La cessazione dell’attività era prevista tra febbraio e ottobre 2008, e l’accusa che si leva da sindacati, giornali e politici è che la prossima chiusura ha spinto i dirigenti tedeschi a tirar via in tema di sicurezza e condizioni di lavoro. La Thyssen respinge con forza ogni addebito: gli estintori erano mezzi vuoti perché li avevano adoperati, nei giorni precedenti, gli stessi operai, i quali non s’erano curati - come previsto dal regolamento - di portarli al centro dove si provvede alla ricarica. Il telefono per i soccorsi era addosso a una delle vittime ed è andato distrutto. I dati sulla sicurezza esibiti dall’azienda (190mila addetti distribuiti in 70 paesi, 3,3 miliardi di utili prima delle tasse, +27 per cento rispetto all’anno scorso su un fatturato di 55 miliardi in crescita dell’8%) sarebbero rassicuranti: nel complesso del loro impero «l’indice di frequenza di infortuni indennizzati passa da un valore 53 del 1995 a un valore 19 del 2003». Più tardi però, dalle mail scambiate dai dirigenti del gruppo emergerà – secondo fonti vicine agli inquirenti – che sarebbero stati tre i livelli di sicurezza nei diversi stabilimenti: uno definito ottimo in Germania, uno buono a Terni, un terzo pressoché inesistente nella vecchia fabbrica torinese. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, particolarmente sensibile al problema delle morti bianche, è tra i primi a esprimere il suo dolore. Già in maggio aveva denunciato il problema degli incidenti sul lavoro invitando forze politiche, sindacati e giornali a considerarlo un’emer­genza nazionale. Usa questa espressione anche il presidente del Consiglio Romano Prodi, in quei giorni a Lisbona, che intima alla Thyssen di «chiarire tutto quello che c’è da chiarire senza reticenza alcuna». Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero (Rifondazione) vuole inserire nella Finanziaria nuove norme sulla sicurezza, ma molti esperti osservano che le norme sulla sicurezza esistono e sono buone, il problema casomai è farle osservare, soprattutto nelle fabbriche e nei cantieri più piccoli. Il 10 dicembre Torino si ferma: un corteo di trentamila persone sfila per le vie del centro. Gli operai non risparmiano fischi ai sindacati: contestato anche il segretario nazionale della Fiom Gianni Rinaldini. Momenti di tensione si vivono il 19 dicembre al funerale del capoturno Marzo, perché i compagni di lavoro hanno saputo che poche ore prima è morto anche il giovane Rodinò: il nastro sulla corona di fiori inviata dalla ThyssenKrupp viene strappato al grido di «vergognatevi!» da un delegato sindacale amico delle vittime. La corona dell’azienda sarà infine gettata fuori dalla chiesa al funerale dell’ultima vittima. Solo il 19 dicembre esponenti di primo piano della multinazionale tedesca incontrano a Torino il sindaco Sergio Chiamparino per presentare a lui e alla città le proprie scuse e le proprie condoglianze. L’inchiesta della procura di Torino intanto procede rapidamente. Il 22 febbraio i magistrati guidati dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello chiudono il fascicolo con un’ipotesi di reato che si annuncia pesantissima e senza precedenti in Italia per un incidente sul lavoro: quella di omicidio volontario, contestata all’amministratore delegato della ThyssenKrupp in Italia, Harald Espenhahn. Le richieste di rinvio a giudizio (per altri cinque dirigenti si parla di omicidio e incendio colposo) vengono ribadite nell’udienza preliminare di ottobre e accolte dal gup in novembre. «I vertici della ThyssenKrupp – dice l’accusa – si sono rappresentati il rischio e l’hanno accettato. Quello che è successo è il prodotto di una politica aziendale». Al processo comunque i parenti stretti degli operai morti non potranno presentarsi come parti civili: il 30 giugno la multinazionale tedesca liquida con un risarcimento record, quasi tredici milioni di euro, le sette famiglie. Con qualche anticipo sui tempi previsti, l’acciaieria di corso Regina Margherita chiude per sempre: la parola fine viene messa il 3 marzo con la firma dell’accordo tra azienda, sindacati e istituzioni al ministero per lo Sviluppo economico. Sull’onda dello sdegno per la tragedia di Torino e all’indomani della morte di altri cinque operai a Molfetta (vedi dietro) il primo aprile 2008 il governo Prodi ormai dimissionario vara il decreto attuativo della legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (il disegno di legge delega varato dallo stesso governo il 13 aprile 2007 era stato approvato otto mesi prima dal Parlamento). Il testo unico contiene poco più di 300 articoli la cui novità principale è l’arresto (da quattro a otto mesi di carcere) per i datori di lavoro. Confindustria critica l’impianto «tutto spostato sull’inasprimento delle pene» anziché sulla prevenzione. E il nuovo governo, per bocca del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, esprime subito l’intenzione di mettere mano al testo unico «attraverso un intenso dialogo sociale». La tragedia alla Thyssen ha ispirato due film presentati a settembre alla Mostra di Venezia: La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti e ThyssenKrupp Blues di Pietro Balla e Monica Repetto. Sempre dalla strage nell’acciaieria ha preso le mosse Pippo Delbono per un testo-denuncia, La menzogna, che a ottobre ha inaugurato la stagione dello Stabile di Torino.