Mimmo Càndito, La Stampa 29/12/2008, pagina 15, 29 dicembre 2008
La Stampa, lunedì 29 dicembre 2008 «Sì, abbiamo la stessa età», dice, sorridendo, e scuote seduttiva i suoi capelli, Lisa Hernàndez
La Stampa, lunedì 29 dicembre 2008 «Sì, abbiamo la stessa età», dice, sorridendo, e scuote seduttiva i suoi capelli, Lisa Hernàndez. Quel primo gennaio del ’59, quando Castro entrò all’Avana e la Revoluciòn sfilò vittoriosa lungo il Malecòn, Lisa Hernàndez era nata da pochi giorni. «Ma papà aveva paura dei barbudos, e lasciammo l’isola che ero ancora in fasce». Lisa e la Revolución tra un paio di giorni compiranno, entrambe, 50 anni di vita; Lisa, avvocato in uno dei più importanti studi legali di Miami, è una bella donna, alta sui tacchi, fascinosa nei suoi anni ancora giovani, ma la Revoluciòn, laggiù nell’isola che sta ad appena 90 miglia da Key West, è ormai segnata dalle rughe del tempo, e la crisi delle ideologie le impone oggi la cruda realtà degli acciacchi d’una vecchiaia impietosa. A cinquant’anni si possono fare i primi seri bilanci. «All’inizio non fu facile, dovemmo arrangiarci. Lasciavamo una condizione felice, e fu necessario imparare a darsi da fare. Papà e mamma sono morti con tanta nostalgia, ma io... la mia vita è qui, e a Cuba ci andrò solo da turista». Sono quasi due milioni i cubani che in questi cinquant’anni sono scappati dall’isola di Castro, la gran parte di loro vive oggi in Florida; Miami, dopo l’Avana, è la città che ha più abitanti di origine cubana, e qui si parla spagnolo anche più che inglese. Ma «la Merica» non è Bengodi. Jorge, tutte le mattine verso le 8, passa sotto l’appartamento dove abito, e fruga nel cassone della spazzatura. A forza di vederlo dalla finestra, puntuale come per il lavoro, con il suo piccolo carrello pieno di buste di plastica e di pacchi, gli lascio del cibo e qualche dollaro sul muretto accanto al cassone verde. Ha una folta barba nera, e i capelli ispidi tenuti da un berretto blu dell’Us Navy; un mattino ci siamo incrociati, e abbiamo parlato. Lui è un balsero. «Siamo scappati da Cojmar dieci anni fa, eravamo in quattro, avevamo fatto una barca con degli assi di legno e le vecchie camere d’aria di un camion; e siamo stati fortunati di non finire nella pancia d’un pescecane. Ma qui mi è andata male, qualche piccolo lavoro e però mai una cosa seria. Ora, poi, con la crisi, tutto si è fatto più difficile. Ogni tanto mi chiedo se non era meglio restarsene a Cuba». Anche Jorge sembra avere 50 anni, ma è colpa dei tempi duri che ha vissuto qui. Una sera, all’Avana, la figlia di un amico che avevo accompagnato in discoteca, affascinata dalla musica e dall’ambiente mi disse: «Io voglio il capitalismo. Voglio potermi comprare i vestiti che hanno queste ragazze in sala, senza dover fare la puttana che va con gli stranieri». Tentai di spiegarle che il capitalismo è anche vita dura, competizione, che tutto si paga e nulla è gratis; lei studia all’Università e frequenta la scuola del Ballet Nacional, senza spendere un solo peso, e quella sera scoppiò in lacrime. Quando la riaccompagnai a casa, e fermai l’auto davanti al portone, mi fece ripartire di corsa: «Via, via, ci sono quelli del Cdr, e se mi vedono con uno straniero rischio di essere espulsa dalla scuola del Ballet». Dovetti accompagnarla dalla nonna, in un villaggio fuori dall’Avana. I Comité de Defensa Revolucionaria - ufficialmente un organo di assistenza per i residenti di ogni palazzo - sono gruppi di «rivoluzionari» che controllano la vita di ogni edificio, prendono nota di tutto, quali persone frequenti, quello che dici, quanto partecipi alle «convocatorie» del regime, e poi redigono le schede informative per il ministero dell’Interno; decidono sostanzialmente della sorte d’ogni persona, perché a Cuba è il regime che decide quale scuola puoi frequentare, quali studi fare, che mestiere ti tocca. Gli studi sono gratuiti (come la sanità), e l’isola ha un livello di alfabetizzazione altissimo, da Paese ipersviluppato, il 99,8 per cento, meglio che l’Italia; è uno dei vanti di cui la Revoluciòn si mostra legittimamente orgogliosa. Ma oggi a Cuba un ingegnere preferisce lavorare come cameriere; il suo stipendio - il salario medio dell’isola è di 20 dollari - se lui serve ai tavoli dei bar e dei ristoranti frequentati dai turisti se lo guadagna di mance in meno di una settimana. Dice Andrés Oppenheimer, premio Pulitzer per i suoi reportage da Cuba: «L’isola è come un gigantesco asilo infantile, dove la tua sopravvivenza è garantita, ma è il governo a decidere per te su tutto, la scuola, il lavoro, quello che puoi comprare, quello che ti è permesso di leggere, quello che puoi guardare alla tv». A Cuba sono sparite le sacche di miseria che c’erano al tempo del dittatore Batista, quando - senza contare però i drammatici squilibri sociali - l’isola aveva comunque statistiche che l’annuario dell’Onu classificava tra i primi quattro paesi dell’America Latina; oggi la mortalità infantile resta ancora la più bassa, ma solo il 2 per cento dei cubani ha accesso a Internet e solo il 9 ha una linea di telefono (il cellulare riguarda l’1 per cento della popolazione). E Adolfo Fernàndez Sainz, uno dei 29 giornalisti arrestati nel 2003, deve scontare 15 anni di galera per «sovversione dell’ordine nazionale»; tra le prove, una macchina per scrivere elettrica, e alcuni libri proibiti, tra cui «1984» di George Orwell (non essendo cubano, io me la sono cavata con l’espulsione, dopo un’inchiesta all’Università dell’Avana, e poi il visto mi è stato sempre rifiutato per essere «agente della Cia»). La libertà ha un prezzo, e un costo. Quando mi espulsero, il Direttore Generale del Ministero degli Esteri mi disse: «Voi, in Occidente, parlate tanto di libertà e di diritti umani. Ma il diritto a non aver fame non è forse più importante?». A Cuba, fino a qualche tempo fa, questo diritto era più o meno uguale per tutti, e il regime se ne faceva un vanto. Sono scomparse le classi sociali, diceva, siamo tutti uguali. Ma l’implosione dell’impero sovietico ha privato l’isola della sua maggior fonte di aiuto, e ha fatto aprire le porte agli investimenti stranieri e, soprattutto, al turismo e ai suoi dollari. Nel 2008 i visitatori hanno fatto il nuovo record, quasi due milioni e mezzo di presenze; ma il turismo e la circolazione libera del dollaro hanno finito per creare ora due società: quella che continua a vivere con il peso e la sussistenza d’una Revoluciòn acciaccata, e quella che gode invece dell’utilizzo del dollaro. La fame (comunque la penuria, gli scaffali vuoti dei negozi) a Cuba era democratica, riguardava tutti; ora non lo è più. Dice il professor Jaime Suchlicki, che all’Università di Miami dirige il Centro di studi cubani: «La gente dell’isola lo sa bene, che la storia dell’embargo americano è solo una scusa, e che la centralizzazione del regime tronca ogni possibile sviluppo. Tutti aspettano un cambio, un’apertura, chi vive a stento con il peso, e chi ha il dollaro e si prepara a entrare nel mercato». Raùl Castro, che ha sostituito il Comandante Fidel nella poltrona ufficiale, dice di volere questo cambio, lancia segnali verso Washington (ma ancora soltanto parole, e ben pochi cambiamenti, marginali, nella vita quotidiana dell’isola). S’aspetta Obama, e però con cautela: Fidel, in una delle sue «riflessioni» settimanali sul quotidiano del partito, ha avvertito che il lupo può anche cambiare il pelo ma sempre lupo resta. Da Miami si seguono le esasperanti lentezze del regime con spirito contraddittorio. «Papà - dice Lisa - voleva veder Castro impiccato, ma io, e la generazione dei più giovani, guardiamo a Cuba con distacco; per noi è un posto lontano, un retaggio della memoria». I «gusanos», i vermi come li chiamava con disprezzo l’Avana, ci sono sempre, e ancora sognano di andare a liberare l’isola dalla Revoluciòn, preparano le armi, tengono in efficienza i loro yacht da flotta di sbarco; ma la Revoluciòn ansima già per proprio conto, alza nel vento dell’Oceano la vecchia bandiera del socialismo e però vive ormai di transizione. Da questa parte e da quella del Malecòn, aspettano tutti. A 50 anni, i conti che si tirano sono amari; finite le illusioni, si consuma lentamente anche la vecchia fascinazione del mito. E la foto del Che è un poster ormai ingiallito nel cassettone della memoria. Nella frase stampata in basso, che diceva «Hasta la victoria siempre», una mano ignota ha aggiunto un «quasi». Mimmo Càndito