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 2008  dicembre 24 Mercoledì calendario

La Stampa, mercoledì 24 dicembre 2008 Guadalajara. Calvino e il cannibalismo è una storia messicana

La Stampa, mercoledì 24 dicembre 2008 Guadalajara. Calvino e il cannibalismo è una storia messicana. Lo scrittore italiano ha visitato due volte il paese; la prima nel 1964, l’anno del matrimonio con Esther Singer, celebrato a Cuba, poi ancora nel 1976, di cui restano delle fotografie insieme alla moglie davanti alle rovine delle piramidi del sacrificio. questo secondo viaggio che incuriosisce, perché ha lasciato una traccia segreta, ma duratura, nella sua opera che i lettori e gli studiosi di Calvino per lo più ignorano. Ma cosa c’entra il pasto umano con lui? Che cosa ha che fare una consuetudine così efferata con uno così scrittore razionalista? Dopo i due viaggi messicani Calvino scrive; la sua attenzione va ai sacrifici aztechi, ai riti sanguinari in cui venivano immolate sulle piramidi migliaia e migliaia di prigionieri di guerra. Nel 1974 scrive dell’imperatore azteco, di Montezuma: prima l’introduzione a un libro di storia, poi una «intervista impossibile» trasmessa alla radio. La questione che lo affascina è senza dubbio la vicenda della Conquista: come hanno potuto i crudeli e spietati aztechi soccombere davanti a 400 soldati di ventura spagnoli guidati da Cortés? Gli interessa il problema del potere, fra due immagini del potere: gli aztechi e gli spagnoli. Si sente l’atmosfera del decennio, l’eco delle lotte politiche in corso allora in Italia e in Europa, il confronto tra civiltà così diverse. Si domanda se il destino del mondo è quello del dominio incondizionato dell’Occidente. S’interroga sul problema del governo quale atto di forza: il governo, scrive, dipende da un occulto uso dei rapporti di forza. Sono gli anni delle dimissioni di Nixon, della crisi della Dc, dello shock petrolifero. La preoccupazione massima di Calvino, gran razionalista, è in quel momento di «tenere insieme il mondo perché non si sfasci». Anni dopo tornerà di nuovo sull’argomento recensendo un libro d’antropologia e troverà una spiegazione utilitaristica ai sacrifici umani, e in particolare alla sorte toccata ai corpi degli uomini immolati agli dèi aztechi sulle are di pietra finemente scolpite, affinché il corso del sole non si modificasse e il giorno potesse nascere di nuovo. La risposta consolante la trova in Marvin Harris, autore di Cannibali e re: l’alimentazione. «Pasti di carne umana erano un contributo importante al fabbisogno di calorie», chiosa soddisfatto. Da buon ligure ciò che gli repelle è in definitiva lo spreco. Il cannibalismo è una buona spiegazione: il fabbisogno di carne. Finché sono rimasto a Guadalajara, tra gli stand della Fiera del Libro, per l’inaugurazione di una mostra dedicata a Calvino - l’Italia è stato il paese ospite quest’anno -, l’interrogativo di Calvino sui sacrifici umani non ha preso gran rilievo. Poi, qualche giorno dopo, quando ho scalato le gradinate di Teotihuacan, e sono salito sulle due piramidi del periodo classico, tutto mi è parso insieme non solo pertinente ma anche inquietante, straordinariamente inquietante. Qui, tra le rovine dell’antica città, venivano gli imperatori aztechi (sacerdoti, generali, re, o altro ancora) a contemplarne i resti quasi intatti, convinti che le piramidi fossero state costruite da giganti per i loro dèi nei tempi remoti. Lì, salendo gradino su gradino, ho compreso di colpo che tutto in Messico è fuori misura, non solo il sole, il cielo, le città, il traffico automobilistico, il cibo, l’inquinamento, l’allegria e la malinconia dei messicani, ma anche le antiche religioni. Davvero è esistito un tempo in cui il cannibalismo era una norma consueta, e il sacrificio il fondamento stesso del potere. A Città del Messico, al Museo nazionale d’antropologia, c’è un bassorilievo dove è raffigurato il sacrificio di sangue del re e della sua consorte: la donna si fa passare attraverso la lingua una lunga fune irta di spine mentre il sangue le cola su un foglio di carta che userà per il rito sacro. I capi maja, riferiscono le guide, si trapassavano il pene con una spina d’agave per ottenere il sangue con cui realizzare il rito. Si era re o imperatori, solo in virtù del proprio sacrificio. Oggi accade il contrario: i sacrifici - certo non cruenti sul piano fisico - sono chiesti ai «sudditi» e i capi moderni custodiscono gelosamente il proprio corpo affinché duri nel tempo. Nel secondo viaggio, in Messico, che tocca località con vestigia maja, a colpire Calvino non è più il cannibalismo degli altri, bensì il proprio. In questo secondo tour tra le rovine lo scrittore manda in giro il suo alter-ego, il signor Palomar: a Tule, a Palenque. Ne scrive sul Corriere della Sera, poi, a distanza d’anni, anche un racconto: Sotto il sole giaguaro. Probabilmente è sotto l’influenza di un libro del suo amico messicano, Octavio Paz, Il labirinto della solitudine: il sacrificio come «rigenerazione». Il protagonista del racconto ambientato in un ex-convento divenuto albergo, in un momento di stanca del rapporto con la moglie, Olivia, intuisce che la soluzione consiste nel cannibalismo: farsi mangiare dall’altro e insieme mangiarlo. I due coniugi comunicano attraverso i sapori della cucina messicana. Olivia è interessata al cibo e in particolare al sapore della carne umana negli antichi sacrifici. Lui, invece, è preda dell’ossessione della fine. Per ristabilire l’equilibrio l’uomo capisce che deve mangiarla, almeno simbolicamente. Così accade, e quella notte a letto ritrova l’antica intesa sessuale. Il giorno dopo, l’alter-ego di Calvino, il suo narratore, in cima alla piramide, sotto il sole a picco - il sole-giaguaro, divinità azteca - ha una visione: capisce di essere a un tempo vittima e sacerdote, vivo e morto nello stesso istante. Nel Messico globalizzato dal turismo mondiale chi visita le sue rovine, cammina per le sue città, si tuffa nel suo mare cristallino o attraversa le sue foreste, sa in anticipo che tutto è come da guida. Ma fino ad un certo punto. C’è ancora qualcosa che resiste all’ultima e definitiva trasformazione del mondo e delle sue culture. Si chiama «anima messicana» che Paz ha descritto oltre sessant’anni fa: vedere la morte come nostalgia e non come fine della vita, poiché noi - noi messicani, scrive - «non veniamo della vita bensì dalla morte». Che sia stato questo ad affascinare il razionalista Calvino nel suo ultimo viaggio messicano? Marco Belpoliti