Gianluigi Melega, L’Espresso, 23 dicembre, 23 dicembre 2008
GIANLUIGI MELEGA PER L’ESPRESSO 23 DICEMBRE
Una vita da principe L’infanzia cosmopolita. La lotta partigiana. Le avventure editoriali. Le amicizie. Gli amori. La famiglia. La curiosità inesauribile. Il rifiuto della malattia. Gli 83 intensi anni di Caracciolo
Io sto benissimo. E te?... Così rispondeva Carlo Caracciolo, sempre, a chiunque fosse abbastanza in confidenza con lui per chiedergli notizie del suo stato di salute. E la risposta secca, accompagnata dal vezzo di deformare aristocraticamente la familiarità del ’tu’, le prime volte provocava un impercettibile sconcerto in chi lo ascoltava, così da far accettare senza controbattere la mancanza di informazioni sulla malattia del momento.
Considerava parlare di sé e di qualsiasi propria malattia qualcosa di poco educato. Ne aveva avute tante, e gravi, e averle sempre debellate sembrava avergliele fatte dimenticare. Persino i medici faticavano a fargli ricostruire quel lungo percorso a ostacoli che psicologicamente non aveva lasciato tracce.
Conoscerlo era un privilegio. Molte persone hanno frequentato Carlo Caracciolo in periodi diversi degli 83 anni della sua vita. Alcune lo hanno incontrato casualmente, superficialmente. Altre lo hanno avvicinato in ragione di qualcuna delle tante attività in cui si impegnava: l’editoria, la finanza, la gastronomia, il giardinaggio, il gioco, l’avventura, la commedia umana. Altre ancora, poche, gli si sono affiancate a lungo, più da vicino, per legami di sangue o di amicizia.
Per tutte conoscerlo era un privilegio. Non ce ne fu una, per superficiale o profondo che fosse quel rapporto, che non considerasse qualcosa di misteriosamente affascinante passare un’ora con lui.
Si può cercare di descrivere l’essenza di questo rapporto, sempre un po’ sghembo, soltanto per accumulazioni, con la certezza che uno solo degli innumerevoli esempi non può essere sufficiente. A cominciare dalla schiatta: principe di Castagneto, duca di Melito. Ma, per descriversi, lui, che era nato casualmente a Firenze da madre americana, si diceva "napoletano, discendente dell’ammiraglio Caracciolo, repubblicano ribelle ai Borboni, impiccato da Nelson all’albero di maestra della sua nave quando la rivolta venne soffocata". Per ricordare subito dopo, con un sorriso ironico, che "a Napoli Caracciolo e monnezza si trovano a tutti gli angoli delle strade".
Alto, magro, biondo, una buona educazione trilingue e un bel cognome per patrimonio, a 18 anni aveva fatto la scelta più romantica e arrischiata che la vita vera gli aveva messo di fronte: lasciato il liceo di Lugano (il padre, console, rappresentava nel 1943 l’Italia di Vittorio Emanuele III, contro la Repubblica di Salò) era andato a unirsi alle bande partigiane dell’Ossola.
Dei mesi in montagna, anni dopo, ricordava soprattutto la casualità degli avvenimenti: come dei suoi compagni fossero stati uccisi in un rastrellamento a cui era scampato, come non fosse riuscito ad ammazzare una pecora mentre ancora poco prima sparava a un nemico, come fosse stato quasi comicamente arrestato da uomini della X Mas travestiti da partigiani, condannato a morte e contemporaneamente mandato a pulire le latrine ("Se devo morire domani, allora stasera non pulisco i cessi", aveva protestato, lasciando tanto di stucco il comandante fascista da essere lasciato, almeno per quella che avrebbe dovuto essere l’ultima sera, in pace), come avesse poi negoziato la sopravvivenza, promettendo che a guerra finita avrebbe salvato il carceriere repubblichino che lo aveva in custodia (promessa che mantenne).
Il 25 aprile 1945, malvestito e senza un soldo, era arrivato a Milano alla ricerca di un alloggio amico. Non trovando nessuno era entrato al Grand Hotel Milan di via Manzoni e, rivolgendosi al portiere, aveva annunciato: "Requisisco una stanza a nome del Comitato di liberazione nazionale", rilasciando una regolare ricevuta e riuscendo così a dormire in un letto vero dopo molte notti difficili.
Di quegli anni gli erano rimasti attaccati per sempre, ovunque il tempo li avesse dispersi, i compagni di avventura. La notorietà che l’editoria gli avrebbe dato faceva sì che ogni tanto qualcuno di loro si facesse vivo, citando al telefono il nome di battaglia come lasciapassare per un incontro con lui. Ancora poco tempo fa aveva fatto in macchina un giro per l’Ossola con un ’Luciano’, che a Cannobio, sul lago Maggiore, nel 1944 aveva nascosto sua madre, venuta di nascosto dalla Svizzera per cercare di incontrarlo.
Laureato, dopo un anno da tirocinante in uno studio di avvocati di New York, era tornato in Italia a cercare una propria strada professionale e quasi per caso aveva cominciato con un ’trade journal’, una pubblicazione per imprenditori di imballaggio.
Nello Ajello, che gli ha fatto da spalla per ’Un editore fortunato’, la bella intervista-biografia pubblicata da Laterza, ha ripercorso con lui la formidabile carriera che lo portò dal primo ’Espresso’ a ’la Repubblica’, alla partnership con Carlo De Benedetti prima in Mondadori, poi nel vero e proprio impero attuale (oltre alle due ammiraglie, 15 quotidiani locali, tre reti radio, ’Micromega’, ’Limes’, reti tv e Internet, la Manzoni , le ’Guide’ e un ventaglio di imprese minori), come primo (circa il 10 per cento) degli azionisti di minoranza.
Di questo impero conosceva ogni dettaglio e personalmente molti dei tremila e passa dipendenti. La complessità dell’editoria a quel livello, i rapporti con i produttori di macchine a stampa, con i rappresentanti della pubblicità, con gli editori italiani e stranieri, con i singoli giornalisti e direttori, con gli uomini politici che a ogni livello entravano in contatto con lui, lo affascinavano e lo divertivano come un panorama vivo della commedia umana.
Tutti i direttori delle testate del gruppo, dopo essere stati scelti da lui, erano oggetto di silenziosa e continua valutazione professionale. Al suo fianco aveva voluto e imposto il ’mastino’ del Gruppo, Marco Benedetto, amministratore delegato di cui apprezzava ciecamente l’irruenza e la tenacia, anche quando i caratteriali modi bruschi di Benedetto lo inducevano a rammendare le inevitabili tensioni. Con alcuni giornalisti, poi, aveva rapporti personali che cercava sempre di approfondire a ogni occasione di incontro: Bernardo Valli, Piero Ottone, Mario Lenzi, Claudio Magris , Paolo Mieli, Furio Colombo e, naturalmente, il compagno delle grandi avventure editoriali, Eugenio Scalfari.
Aveva votato, nelle diverse occasioni, per repubblicani, socialisti, radicali e comunisti, mai per i democristiani: aveva ovviamente conosciuto tutti i maggiori leader politici laici, ma gli era piaciuto frequentare personalmente don Giussani, di Comunione e liberazione, e monsignor Paglia, della Comunità di Sant’Egidio.
Aveva una predilezione per i bricconi che gli capitava di incontrare, soprattutto se capaci di inventare qualche iniziativa impensata o bislacca: se constatava che l’amicizia sapeva reggere eventuali difficoltà, si compiaceva di una forma spregiudicata, e persino un po’ cinica, di reciproca lealtà. Ma chi tradiva l’amicizia era marchiato per sempre.
Così gli capitò di essere ospite d’onore a qualche cerimonia nuziale fascista (con stupore degli altri invitati), di essere comproprietario di cavalli con sardi sospetti di riciclaggio, di ricevere quadri di attribuzione incerta, di continuare a invitare a cena un celebre giornalista dopo averlo licenziato da ’L’espresso’ per le sue marachelle: omnia munda mundis sembrava essere il suo motto, anche se sapeva bene di non poter assolvere se stesso così a buon mercato. Ma al mondo bastava.
Così si divertiva, nelle ultime, recenti interviste, ad annunciare che avrebbe votato Pd e al tempo stesso a rivendicare, sorridendo ironicamente, la sua amicizia con ’Peppino’ Ciarrapico. Dopo le elezioni a Roma, il neo-sindaco Gianni Alemanno, che aveva conosciuto quando era ministro, gli aveva telefonato, e lui lo aveva invitato a cena. Negli ultimi giorni avrebbe voluto avere a pranzo, per parlare di un’iniziativa Internet, Luca Sofri e Giovanni De Mauro, direttore dell’’Internazionale’: ma un’altra, purtroppo fatale ospite, gli si è imbucata prima in casa.
Fin dall’adolescenza era stato affascinato dalla varietà e dagli imprevisti della vita. Col padre diplomatico e la madre americana aveva vissuto in Turchia, a Roma, in Svizzera, in Alto Adige, assorbendo sin dai primi anni un esotismo cosmopolita che veniva temperato da una rigida educazione scolastica, con insegnanti come i gesuiti di Mondragone o i professori di Lugano.
Il caso volle che Marella, la sorella di due anni più giovane che per tutta la vita fu la sua familiare prediletta, andasse sposa a Gianni Agnelli, quasi suo coetaneo. L’Avvocato, prima ’principe’ e poi ’re’ di Torino, aveva per i Caracciolo, principi veri, un’invidia affettuosa e gelosa, e per il cognato il desiderio di averlo il più spesso possibile con sé, nelle strepitose avventure che la condizione senza eguali gli permetteva.
Ospite ricercatissimo nelle case più esclusive del mondo, a Parigi, a New York, a Sankt Moritz, Caracciolo si trovò a partecipare a trasvolate intercontinentali, a cacce reali, a scorribande romantiche, a scommesse arrischiate, a regate epiche, a cene o a breakfast con compagni di viaggio come Kissinger o von Karajan, Jeanne Moreau o Gorbaciov, Truman Capote o Edmond de Rothschild. Col passare degli anni, accanto alla galassia del cognato cominciò a formarsene una sua propria, inevitabilmente legata alla crescita dei giornali, primo tra tutti ’L’espresso’.
All’interno della Fieg (la Federazione degli editori) e nel mondo della politica italiana godeva di una stima generale tanto automatica da sembrare quasi ingiustificata: così che spesso riusciva a sedare gli inevitabili screzi tra tante suscettibili personalità in competizione tra loro con suggerimenti presentati con astuzia, garbo e discrezione, ma tali da soddisfare anche i contendenti più rissosi.
Esempio preclaro, quando riuscì a indurre Ciarrapico a negoziare, col beneplacito di Giulio Andreotti, la pace separata tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi che portò alla divisione del colosso Mondadori, con ’Repubblica’ e ’L’espresso’ da una parte e ’Panorama’ e i libri dall’altra. Di Berlusconi, suo rivale nel testa a testa successivo, detestava i metodi di lavoro e le scelte politiche, ma senza astio né tanto meno odio: anzi, in privato, ne parlava con divertita ironia e ammirazione per la sfrontata furbizia.
Viveva le giornate fino in fondo, dall’abitudine alla sveglia mattutina fino a sera. Quando poteva si divertiva al gioco: scacchi, poker o écarté. Detestava perdere, soprattutto quando c’erano poste in palio. E per gli scacchi era pronto a ogni sfida: un anno era andato fino in Islanda per seguire il campionato del mondo tra Spasski e Fischer, negli anni più vicini aveva accettato di partecipare ai tornei casalinghi organizzati da Paolo Fresco, ex presidente della Fiat.
Nelle letture quotidiane dei giornali c’era sempre il problema di scacchi dell’’Herald Tribune’ e di ’Libération’, il quotidiano della sinistra francese di cui, contro l’opinione degli amici prudenti, aveva voluto acquistare un terzo a titolo personale, per riportarlo in attivo: una scommessa che gli stava andando bene. I compagni preferiti al gioco erano Claudio Rinaldi, Jas Gawronski e, finché visse, Cesare Garboli, di cui lo affascinavano la conversazione e gli scritti di critica letteraria.Negli anni più recenti si era impegnato quasi maniacalmente a perfezionare l’uso del poco suo tempo libero: oltre al giardinaggio, la gastronomia e l’arte. Era orgogliosissimo e fiero delle ’Guide’ dell’Espresso ai ristoranti, alle enoteche, ai vini, quasi le avesse scritte lui. Periodicamente Gianfranco Vissani gli arrivava in casa per preparargli qualche piatto speciale. O andava lui, deviando da un viaggio di lavoro, a Padova o a San Vincenzo, per controllare che l’eccellenza dei voti delle ’Guide’ fosse sempre meritata.
In arte aveva gusti precisi: grandi tele di Mario Schifano e piccoli capolavori di Osvaldo Licini. Da ultimo, le creazioni in bronzo e vetro di Tristano di Robilant, nipote di un amico fraterno. Negli ultimi anni, per le vacanze, noleggiava un piccolo yacht con cui preferiva bordeggiare tra le Pontine e le Eolie, con una preferenza assoluta per Palmarola, sua meta riservata e felice. Ma era stato entusiasta, qualche anno fa, quando Carlo e Silvia De Benedetti lo avevano ospitato sulla loro grande barca per uno straordinario viaggio in Antartide, tra ghiacci e animali raramente raggiungibili. E l’anno scorso, in occasione della speciale stagione per il centenario mozartiano, era volato a Salisburgo per un’edizione della ’Finta semplice’.
Per tutta la vita, sin da ragazzo, è stato adorato dalle donne: sentimenti che lui ricambiava, ma volgendoli in leggerezza, con ironia beneducata, con affettuosa discrezione. Soltanto con quella che diventò avanti nella vita sua moglie, Violante Visconti, si abbandonò alla felicità piena dell’esistenza quotidiana comune, creando e curando con lei la sua seconda, vera casa, il castello e il parco di Torrecchia, 60 chilometri a sud di Roma, oasi di verde e fiori celebrata dagli esperti di giardini di tutto il mondo, ornata dalle tele e dagli aerei affreschi di Tullio Pericoli.
Prima di Torrecchia, con Marella e l’altro fratello minore, Nicola, aveva trasformato la casa di campagna lasciatagli dal padre, Garavicchio (a pochi chilometri da Capalbio, in Toscana), in una tenuta-santuario per una sensazionale opera d’arte moderna: il ’Giardino dei Tarocchi’ di Niki de Saint Phalle: una trentina di grandi statue multicolori, immerse tra gli ulivi, tra profumi di pino e rosmarino, meta di ammiratori ed esperti d’arte di ogni paese.
Garavicchio è oggi il centro della ramificata famiglia Caracciolo. Lì c’è una minuscola cappella, affrescata dalla nipote Margherita, figlia di Marella e Gianni Agnelli. A Garavicchio vivono la figlia Jacaranda, il genero Fabio Borghese e i nipoti Alessandro, Sofia e India. Hanno casa Nicola, sua moglie Rossella Sleiter e i loro figli Marella (sposata con Sandro Chia e con le figlie Costanza e Teodora) e Filippo, destinato a portare il nome della casata, con la moglie Fabrizia. Lì a fianco hanno casa i figli di Violante, Guido, Uberto e Caterina Pasolini.
Così, circondata da questa schiera di consanguinei e di nipoti, nella piccola cappella che guarda il calmo Tirreno, scivolerà adesso la bara di Carlo Caracciolo, avvolto dai ricordi di chi gli fu vicino nel senso di una maturità e di una vita vissute pienamente, fino in fondo.