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 2008  dicembre 23 Martedì calendario

MARCO GIOVANNINI PER PANORAMA 23 DICEMBRE

Clint Eastwood L’ultimo pugno del duro di Hollywood Giganti del cinema In «Gran Torino» è Walt Kowalski, veterano di guerra solitario, scorbutico e un po’ razzista. Un personaggio destinato a far dimenticare l’ispettore Callaghan. Perché a 78 anni «Dirty Harry» è ancora una macchina da guerra. Inarrestabile.
Finora era solo la faccia, scolpita come un totem, con quell’inestricabile intreccio di rughe. Ora è anche la voce, bassa, di carta vetrata, con cui ha imparato a ringhiare come il cane Daisy, suo unico confidente, dopo la morte della moglie, nel suo ultimo film Gran Torino.Grande e imprevedibile Clint East wood: a 78 anni ha sfornato due pellicole da Oscar (è ancora nei cinema Changeling con Angelina Jolie), così come due anni fa aveva fatto qualcosa che a nessun filmmaker era mai venuta in mente: due film sullo stesso soggetto, la battaglia di Iwo Jima. Uno dalla parte degli americani, a colori e in inglese, l’altro da quella dei giapponesi, in bianco e nero con i sottotitoli. Un po’ di retorica in onore di Clint è necessaria: pare che Gran Torino sarà l’ultimo suo film da attore. Ma quattro anni fa anche Million dollar baby doveva esserlo. Allora, dopo la nomination come miglior protagonista (più i due Oscar come regista e come produttore), aveva detto: «Un manager scorbutico e misogino. Alla mia età quando mi capiterà più un ruolo perfetto come questo? Meglio smettere finché sono ancora in piedi, invece di finire in ginocchio come tanti pugili suonati. Poter giocare ogni giorno a golf è molto bello. Dover giocare ogni giorno a golf non lo è affatto».Invece gli è arrivata sulla scrivania la sceneggiatura di Gran Torino e non ha saputo resistere. Clint ha sfidato perfino le superstizioni di Hollywood e ha osato inquadrarsi (di Gran Torino è anche regista, ed è la ventinovesima volta, più di Martin Scorsese e più di Steven Spielberg) nella bara, con i capelli candidi ben pettinati e il vestito della festa. Tutto il film suona come un epitaffio, perfino il fatto che, pur imbracciando spesso il fucile di veterano della guerra di Corea (lui l’ha combattuta davvero), i tanti proiettili che volano non sono mai i suoi. Scritto da uno sceneggiatore esordiente, Nick Schenk, il film sul tramonto dell’intemperante Walt Kowalski, americano di origine polacca in pensione dopo 50 anni passati ad assemblare auto nella Ford (Gran Torino è il nome di una celebre vettura di quel marchio prodotta negli anni Settanta che Walt conserva gelosamente), diverte e commuove. Vive a Detroit detestando gli immigrati latini e cinesi che lo circondano, senza un vero legame con i suoi due figli e i nipoti (non riesce ad accettare che una ragazzina giri con l’ombelico scoperto e il piercing) che lo vorrebbero mettere in una casa di riposo. Il giorno in cui una gang gli rovina il prato che lui taglia maniacalmente ogni settimana (così come ogni mese va a tagliarsi i capelli dal barbiere italiano, con cui gode a scambiarsi pesanti insulti razzisti) diventa suo malgrado l’eroe del quartiere e il difensore della famigliola di laotiani vicini di casa. Tempo fa girava voce che Gran Torino fosse l’ultimo film sull’ispettore Callaghan, cioè Dirty Harry, lo sbirro dalla pistola lunga e dalla pazienza corta che negli anni Settanta guadagnò a Clint East wood l’etichetta di fascista (ma un paio di decenni dopo L’Unità lo sdoganò chiamandolo «il compagno Clint»). Walt Kowalski però è peggio di Callaghan: è razzista, malmostoso, ha un caratteraccio. «La correttezza politica è noiosissima. E cinematograficamente parlando è una sciagura, non ha sbocchi narrativi» ha detto poco tempo fa Eastwood. Lui da 15 anni non si affida a nessun altro regista diverso da sé. «Non sono una faccia in affitto» dice «e ormai sono viziato. Sono abituato a fare quello che voglio». Passa da un genere all’altro senza preavviso: «Ho imparato a fidarmi del mio istinto». E non ama perdere tempo: ha letto il soggetto di Gran Torino a febbraio, a giugno ha scelto gli attori, a metà luglio ha cominciato a girare (per soli 32 giorni). Poi ha passato una settimana alla moviola con i suoi due montatori abituali, scrivendo anche un paio di accompagnamenti musicali. Già che c’era ha cantato sulla musica finale con una voce che sembra quella di Tom Waits. «Cantare è una parola grossa, diciamo che parlo in musica». Sul set gira al massimo tre volte una scena, ma spesso è buona la prima, «le altre due sono per vellicare l’ego degli attori che così si sentono importanti». Minimizza: «Il lusso della vecchiaia è che scompaiono i dubbi, non sono più i padroni del tuo lavoro e così sparisce l’agonia autopunitiva. D’altronde cosa possono fargli a un vecchietto settantenne?». Così come in Million dollar baby, anche in Gran Torino si diverte a fare il bastian contrario con un giovane prete («In realtà non ho le idee chiare, diciamo che le religioni organizzate non sono il mio forte»), ma è una delle prime volte che sullo schermo piange e racconta una barzelletta. L’essere diventato un raffinato regista, dopo essere stato un pistolero da spaghetti western, l’ha fatto paragonare a Paul Cézanne, che solo a 60 anni riuscì a creare i capolavori per cui è famoso. La sua attuale frase di culto è: «Sono arrivato fin qui, non voglio rovinare tutto cominciando a ragionare sul come».Avere fatto un film sulle gang gli ricorda di quando a scuola si scazzottava solo per il dovere di farlo, «anche se l’altro era più grosso e te le suonava, almeno avevi reagito e guadagnato il suo rispetto. Oggi sento parlare di risolvere le cose psicologicamente, non so quando è cominciata questa generazione di femminucce, forse quando tutti hanno cominciato a interrogarsi sul significato della vita. E vogliamo parlare di questa massa di masochisti con tatuaggi e piercing?».Il suo prossimo film sarà The human factor sulla storia di Nelson Mandela, interpretato da Morgan Freeman. Le altre due volte che ha lavorato con lui, in Gli spietati e in Million dollar baby, i film hanno vinto l’Oscar. A lui non gliene importa granché: «Non ho mai fatto un film pensando a un premio. Una cosa, cioè, che non dipende da me. Ho da fare cose più importanti che eccitarmi al pensiero di un Oscar». Per esempio? «Per esempio, lavorare».