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 2008  dicembre 23 Martedì calendario

Questo è un Paese che si lamenta più di altri, forse perché nasconde più di altri le sue fonti di reddito - risponde Giuseppe Roma, che dirige il Censis, il più stimato osservatorio sulla società italiana - ma non gli fa bene»

Questo è un Paese che si lamenta più di altri, forse perché nasconde più di altri le sue fonti di reddito - risponde Giuseppe Roma, che dirige il Censis, il più stimato osservatorio sulla società italiana - ma non gli fa bene». In che senso, non gli fa bene? «Abbandonarsi a questi orgasmi di lamentela, che puntuali si ripetono quando in una indagine o in un sondaggio compare la parola povertà, distorce anche le reazioni. Pensiamo ad esempio quanto rumore si è fatto sui mutui, quando da una nostra indagine risultava che solo il 2,8% delle famiglie indebitate, ovvero ottantamila, non aveva rispettato le scadenze di pagamento delle rate. Non sono tante, 80.000 in un Paese come il nostro». Allora esagerano, quel 15% di intervistati che sostengono di arrivare con difficoltà a fine mese? «In questo Paese si è quasi orgogliosi di star male perché si spera che possa, chissà, fruttare qualcosa. Ma se nei sondaggi le domande sono dettagliate, si scopre che si è molto più pessimisti per la situazione in generale che per la propria». Però la crisi ora c’è davvero. «Non c’è dubbio che andiamo verso una fase difficile: ma gridare all’impoverimento in generale annulla la percezione delle povertà reali che ci sono. Oggi i veri poveri sono soprattutto gli immigrati, e certe fasce di pensionati, le famiglie numerose. Ecco, questo piangere miseria collettivo, che trovo stucchevole, distoglie dall’aiutarli. Lamentarsi deresponsabilizza; spinge al menefreghismo invece che a darsi da fare. Questo favorisce i politici, ai quali tutti chiedono di intervenire». Negli anni scorsi, la quarta settimana del mese è stato il cavallo di battaglia di chi volta a volta stava all’opposizione... «No, anche di alcuni al governo. Si drammatizza per poi esaltare le misure che si prendono». Allora è meglio dirsi ottimisti? «Non credo sia efficace l’invito a spendere. Mi pare un errore, perché anche quello impone all’attenzione la crisi, e può paradossalmente ottenere l’effetto opposto. Invece alla gente si deve spiegare che lo stellone d’Italia non c’è più, che nella globalizzazione non basta arrangiarsi. Oggi, per avanzare, occorre sapere e saper fare le cose». In questo momento i veri pessimisti sembrano gli industriali, non le famiglie. I dati sulle spese per il Natale sembrano contrastanti: un giorno buoni, l’altro cattivi. «Anche qui bisogna guardarsi dalle impressioni. Può essere vero che i voli per i mari del Sud sono tutti pieni, però c’è meno offerta, perché la crisi ha portato gli operatori a tagliare i voli. Nei negozi vedo che la gente compra, ma gli oggetti offerti sono a prezzi più bassi, e di qualità inferiore. E se i commercianti piangono ricordiamoci che negli anni scorsi i lavoratori autonomi sono stati gli unici a migliorare la loro posizione, mentre i dipendenti stentavano. Nel complesso che sarà un Natale prudente». / Stampa Articolo