Riccardo Staglianò, la Repubblica 21/12/2008, pagina 40, 21 dicembre 2008
la Repubblica, domenica 21 dicembre 2008 La sicurezza è il nuovo totem. Il mondo ci scappa sempre più dalle mani
la Repubblica, domenica 21 dicembre 2008 La sicurezza è il nuovo totem. Il mondo ci scappa sempre più dalle mani. Se mai ci siamo illusi di farlo, oggi di certo non lo controlliamo più. Terrorismo, cambiamento climatico, crisi finanziaria, per dire di nemici reali ma senza volto. E poi precarietà nel lavoro e negli affetti. Non c´è più una mattonella esistenziale, di quelle su cui eravamo abituati a stare in piedi, che non sia stata smossa dal grande sisma della post-modernità globalizzata. Su questo terreno sconnesso avanza un uomo inevitabilmente traballante. I nuovi pericoli non sa ancora maneggiarli. I politici, nella medesima condizione, ne esagerano l´allarme perché nessuno poi possa accusarli di negligenza. Col grimaldello dell´emergenza fanno passare leggi e limitazioni della libertà che nessuno accetterebbe altrimenti. Già a nominarli, a parlarne tanto, questi spauracchi intossicano la convivenza e il discorso pubblico. La loro messa in scena anticipata è già la catastrofe. Che poi gli eventi si realizzino o meno diventa quasi un optional. in questo stato febbrile di paura e ansie, la nuova conditio humana, che dobbiamo imparare a muoverci. Facendo una robusta tara alle preoccupazioni per sopravvivere. Questa è la lezione che ci consegna Ulrich Beck, uno dei più grandi sociologi contemporanei e inventore del concetto di Risikogesellschaft, «società del rischio», in quest´intervista. Illuminando molti dei paradossi di cui siamo spesso ignari spettatori. E regalando al lettore, appesantito dalla narrativa apocalittica di questi tempi, una exit strategy metodologica: «I rischi creano opportunità». Solo i morti non ne corrono più. I viventi se ne cibano, senza lasciarsi sopraffare. Nessun tabù, quindi. Professore, nell´estate del 2006 è stato sventato un presunto attacco ad aerei dalla Gran Bretagna verso gli Stati Uniti. Pericolo scampato ma da allora nessuno può portare liquidi in volo. Conseguenza proporzionata? «Non è uno stupefacente - e divertente - rituale che milioni di passeggeri, nella cui mente si è annidata la minaccia terroristica, accettino giorno dopo giorno limitazioni del genere alla loro libertà? Mi ricorda la danza della pioggia degli indiani. Loro danzavano per convincere gli dei a far piovere, noi per produrre un sentimento di sicurezza di fronte a un´apparentemente presente minaccia terroristica». I rischi sono dappertutto. Come possiamo calcolarli? «Per quanto ci sforziamo, i rischi non possono essere evitati. Nella carriera, si rischia di prendere la strada sbagliata. Nei trasporti, di fare un incidente. In amore, il cuore spezzato. E a volte ci piace anche rischiare, correndo più forte o sfidando un amore incerto contro ogni probabilità. Ma la minaccia terroristica è fondamentalmente diversa. Non può esser affrontata individualmente, né esiste una base scientifica sulla quale valutarne le probabilità. Semplicemente, non sappiamo calcolarla». Lei descrive il presente distinguendo «incertezze fabbricate» dai rischi cui eravamo abituati. Ci spiega meglio? «La differenza principale sta nel fatto che si è perso il controllo del rischio. Succede quando almeno una quantità nel calcolo classico (l´attore, l´intento o il potenziale) diventa ignota. Come succede nei casi del cambiamento climatico, dei rischi terroristici e finanziari. Il nuovo punto cruciale tuttavia non è solo la consapevolezza di quest´ignoranza ma anche che lo Stato risponde fingendo di avere una maggiore conoscenza e controllo. Capite l´ironia nell´ostentazione di sicurezza su qualcosa anche se non si sa se esiste! Ciò riporta alla danza della pioggia di cui parlavamo all´inizio». Ma perché dovremmo essere preoccupati da ciò che neppure conosciamo? «La risposta sociologica è: perché di fronte alla produzione di incertezze fabbricate la società più che mai si affida e insiste sulla sicurezza e il controllo. E ciò non solo è vero nelle sfere della politica nazionale e internazionale ma anche in quelle della vita quotidiana, come dimostra la prontezza ad accettare limitazioni delle libertà, come nei voli. Per questo la società mondiale del rischio deve affrontare lo spiacevole problema di dover prendere decisioni su miliardi di dollari o euro o anche su guerra e pace sulla base di un´ignoranza più o meno ammessa». Non si finisce così per confondere il confine tra razionalità e isteria? «Certo. I politici, in particolare, possono facilmente essere costretti a proclamare una sicurezza che non riescono a onorare perché i costi politici di tale omissione sarebbero molto più alti di quelli di una sopravvalutazione. Per questo in futuro non sarà facile limitare e prevenire il diabolico gioco di potere con l´isteria del non-sapere. E qui non oso nemmeno pensare ai deliberati tentativi di strumentalizzare la situazione». Scrivendo di Bin Laden lei punta il dito contro i media che creano un pubblico per le azioni di Al Qaeda. Ma come dovrebbero comportarsi per non cooperare involontariamente col nemico senza rinunciare alla missione di informare il pubblico? «Esagerando un po´ si può dire che non è tanto l´atto terroristico quanto la sua messa in scena globale e le anticipazioni politiche che crea, con azioni e reazioni, che stanno distruggendo le istituzioni occidentali di libertà e democrazia. Forse se il nuovo governo Usa, quelli europei e i giornalisti iniziassero a riflettere sull´importanza di questa messa in scena nel sostenere involontariamente il disegno dei criminali, si potrebbe inquadrare diversamente il terrorismo. Ad esempio non come questione militare ma di intelligence e di politica che necessita nuovi tipi di cooperazione transnazionale». Lei sostiene che non c´è più nemmeno bisogno di una catastrofe per cambiare il mondo perché basta già la sua anticipazione. davvero così facile? «Basta guardare a quell´impagabile commedia di conversione che si sta recitando sul palcoscenico mondiale in queste settimane. Sto, naturalmente, parlando della crisi finanziaria. Dalla sera alla mattina l´idea missionaria dell´Occidente, l´economia di mercato, è collassata. E ciò che sta prendendo il suo posto è un socialismo di Stato per i ricchi, di pari passo con un duro neoliberismo per i lavoratori e i poveri. Ecco perché non mi ritengo affatto allarmista nel sostenere che l´anticipazione della catastrofe può fondamentalmente cambiare la politica mondiale. Tuttavia ciò apre anche un´opportunità di riconfigurare il potere in termini di realpolitik cosmopolita». Può aiutarci con un esempio? «Sì. Tra i tanti paralleli tra la tempesta finanziaria attuale e gli anni Trenta pochi sono più importanti delle implicazioni dello scontento economico per la sicurezza nazionale. La Grande Depressione ci ha portato la Seconda guerra mondiale, uno scenario che non possiamo ripetere. Oggi dobbiamo reimparare che la politica economica e quella estera non sono domini distinti. Costituiscono anzi un nexus strategico le cui interconnessioni possiamo scegliere di ignorare a nostro rischio e pericolo. Le politiche del nazionalismo economico devono perciò essere sostituite con nuove regole e istituzioni che evitino il protezionismo e il caos dei tassi di cambio. Solo la cooperazione internazionale può ravvivare le economie nazionali». Se la preoccupazione crescente e costante per i rischi plasma quella che lei chiama la nuova conditio humana come possiamo sopravviverle? «Beh, io non sono Gesù, non ho tutte le risposte, neppure per le domande più centrali. Ma contro il seme del corrente, diffuso sentimento di apocalisse, mi chiedo: qual è lo stratagemma intrinseco che la società mondiale del rischio si è inventato? Sebbene alcuni insistano nel vedere un eccesso di reazione ai rischi globali, questi ultimi hanno anche una funzione illuminante. Destabilizzano l´ordine esistente e possono anche essere visti come un passo vitale verso la costruzione di nuove istituzioni; confondono i meccanismi dell´irresponsabilità globale e li aprono a un´azione politica». Già prima della crisi finanziaria esisteva un altro grave problema, quello della precarietà del lavoro. Come influisce sulla società questa moderna incertezza? «La "flessibilità del mercato del lavoro" è diventata sia un mantra politico che una realtà. Specialmente per le generazioni più giovani la flessibilità significa una ridistribuzione dei rischi: via dallo Stato e dall´economia, e verso l´individuo. I lavori disponibili sono sempre più di breve durata e facilmente terminabili. Perciò "flessibilità" significa: forza e coraggio, le tue competenze e la tua conoscenza sono obsolete e nessuno può dirti cosa devi imparare perché ci sia bisogno di te in futuro! Io credo che dovremmo distinguere tra ansia (sentimento diretto, concreto, urgente e personale, come la fame e la violenza) e paura (indiretto, astratto, impersonale). La politica della paura, così necessaria per affrontare ad esempio il cambiamento climatico è minata dalle politiche d´ansia, indotte dall´aver sperimentato l´insicurezza lavorativa». Possibile che il timore di una catastrofe futura sia l´unico modo per far comportare la gente in un modo più rispettoso dell´ambiente? E quanto ciò accresce le nostre ansie quotidiane? «Diciamo anche che si sta sviluppando un "capitalismo verde", parti importanti dell´economia globale chiedono un´azione politica forte contro il climate change anche come fonte per nuove opportunità di crescita. Questi non sono neo-samaritani che agiscono per spinta umanitaria. Tuttavia il consenso globale sulla protezione del clima crea nuovi mercati, come sempre accade quando un rischio globale viene riconosciuto come tale. E i principi precauzionali abbracciati dagli Stati incoraggiano la produzione a zero emissioni e tecnologie energetiche efficienti, con chiare ricadute economiche. In questo caso l´anticipazione di una catastrofe futura può insegnare non tanto alla gente ma ai governi e alle aziende ad aprire nuove strade per guadagnare. Ha ragione però quando si chiede se le persone siano pronte, e fino a che punto, a uno stile di vita più ambientalista. una domanda ancora aperta». Torniamo al rischio finanziario. Come sta minando la fiducia in noi stessi? «Cercando di guardare dietro l´angolo, ci sono due scenari da considerare. Nel primo, il 2009 sarà "solo" l´anno di una grave recessione mondiale con tutte le sue implicazioni sociali e politiche, come la radicalizzazione di ineguaglianze sociali all´interno e tra le nazioni, alti livelli di disoccupazione, nuovi tipi di scontri di classe e così via. Ma il punto centrale di questo scenario soft è che dopo uno o due anni l´economia mondiale si stabilizzerà e il mondo apparirà di nuovo com´era prima. Il secondo scenario è invece il seguente: nel 1989 il mondo ha sperimentato il crollo del comunismo. Venti anni dopo quello del capitalismo. La fede nel libero mercato è ciò che ha fatto dell´Occidente l´Occidente. In teoria, almeno, meno intervento del governo c´era, meglio era: il mantra è che i mercati la sanno più lunga di tutti. Questo ritornello giustifica la nostra repulsione per il comunismo, la distanza filosofica dal sistema cinese e l´approccio riformista delle società moderne, sia che si tratti di mercato del lavoro che di università. Ed è qui che si colloca la fondamentale dissoluzione dell´identità e della razionalità occidentali: potremo mai fidarci di nuovo del mercato? Chi ci salverà dai suoi disastri interni, se non la stessa rovina? Alcuni dicono, e lo vorrebbe anche il buon senso: banchieri, esperti, ministri del tesoro, i primi responsabili di questo caos! Ma non è come chiedere a Bin Laden di organizzare la guerra al terrore?». L´ultima ma non meno importante instabilità riguarda l´affettività. Tanti anni fa lei scrisse Il normale caos dell´amore. Possiamo dire che anche le relazioni sentimentali sono vittime della Risikogesellschaft? «Le persone si sposano per amore e divorziano perché ne hanno ancora bisogno. Le relazioni sono vissute come se fossero intercambiabili, non perché vogliamo liberarci del peso dell´amore ma perché la legge dell´amore vero lo esige. La quotidiana battaglia tra i sessi, chiassosa o muta, dentro o fuori il matrimonio, è forse la misura più vivida della fame di amore con la quale ci assaltiamo l´un l´altro. "Paradiso ora!" è il grido di quegli esseri terreni che il paradiso o l´inferno lo trovano qui o da nessuna altra parte. Molti hanno provato che libertà più libertà non è uguale ad amore, ma più probabilmente a qualcosa che lo minaccia. Detto ciò, no, gli innamorati non sono vittime ma protagonisti, agenti della Risikogesellschaft. Il rischio, la prevedibile catastrofe dell´amore, chi vuole perderseli?». Riccardo Staglianò