Francesca Paci, La Stampa 22/12/2008, pagina 14, 22 dicembre 2008
La Stampa, lunedì 22 dicembre 2008 Ha cominciato Sarkozy invitando il presidente siriano Assad al vertice euromediterraneo di Parigi
La Stampa, lunedì 22 dicembre 2008 Ha cominciato Sarkozy invitando il presidente siriano Assad al vertice euromediterraneo di Parigi. Il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha fatto capire più volte che la soluzione del puzzle mediorientale passa da Damasco, interpretando anche la nuova linea dell’amministrazione Obama. Ora ci prova Israele. La scommessa del 2008 è la pace con la Siria. Stamattina il premier dimissionario Olmert ne parlerà direttamente con il primo ministro turco Erdogan che da mesi lavora alla mediazione facendo leva sulla dipendenza economica della Siria da Ankara. l’ultima palla di Olmert ai calci di rigore. Tre giorni fa, a margine delle conferenza nazionale sulla sicurezza, ha ribadito il suo impegno diplomatico perché «la Siria è matura per la pace». «Ancora con questa storia di restituire il Golan? Sarebbe come rinunciare a Tel Aviv o Gerusalemme». Ruti ha 42 anni, 7 figli, il viso tondo incorniciato da un fazzoletto a fiori. Dal 1978 vive qui, in una piccola comunità agricola vicino al kibbutz Ein Ziwan, sulle alture conquistate dall’esercito israeliano nel 1967 e annesse 14 anni dopo in barba al dissenso internazionale. Il confine siriano dista meno di dieci chilometri. Ogni mattina Ruti prende la Renault 4 arrugginita e va a controllare le sue api nelle scatole gialle accatastate nel campo a ridosso del tracciato minato. Al di là della frontiera, fatta di trincee e cumuli di terra, c’è la fascia di sicurezza dell’Onu e Quneitra, la città fantasma che Damasco considera simbolo dei 130 villaggi arabi cancellati dalla guerra e per cui ha giurato vendetta. Lei però, non teme i carri armati di Assad: «Mi preoccupano molto di più i nostri politici e la loro smania di negoziare». L’indiziato numero uno è, ovviamente, Olmert, giunto alla convinzione che «sottrarre Damasco all’influenza dei radicali è una delle priorità d’Israele». Costi quel che costi, compresi «sacrifici duri». Certo, l’aiuto degli Stati Uniti è indispensabile. Ma qualcosa si muove. Secondo una «fonte araba ben informata» citata da Ynet, la versione online del quotidiano Yedioth Ahronoth, i contatti sarebbero così avanti che il presidente Assad potrebbe annunciare a breve la volontà d’incontrare Olmert: «Se la Siria si convince che Israele è disposto a ritirarsi dal Golan non c’è da escludere una sorpresa prima dell’insediamento di Obama alla Casa Bianca». A Merom Golan e negli insediamenti vicini ci credono in pochi. O forse ostentano scetticismo per scaramanzia. Naftali, 50 anni, proprietario del Franguk caffè, una specie di baracca sulla strada per Majdal Shams, il villaggio druso dove è stato girato il film «La sposa siriana», pianta un albero appena sente parlare di ritiro: «Sarà infantile, ma finora ha funzionato». L’amico Avi, ex benzinaio di Ashdod trasferitosi qui con i tre figli nel 2004 ha aperto un forno, «la pizza khoser più buona del nord», e non ha intenzione di mollare: «Quando ero militare in Libano mi ero convinto che il dialogo fosse l’unica chance. Poi ho visto come sono andate le cose con Sadat: gli egiziani ci odiano nonostante la pace. A che serve tendere la mano? Così sono diventato più estremista». Levare le tende? Neppure per idea. Avi può dormire sonni tranquilli, sostiene il professor Eyal Zisser, docente di storia del Medio Oriente all’università di Tel Aviv e tra i massimi esperti di Siria e Libano. L’ipotesi ritiro, per ora, è fantapolitica: «Non c’è nulla di realistico in questi retroscena. Sono voci diffuse dall’ufficio di Olmert affinché il suo premierato lasci un segno». Damasco, spiega Zisser, guarda oltre: «Se Assad ha davvero deciso di fare un passo indietro lo farà con Obama, dunque non prima del 20 gennaio. Inoltre non avrebbe senso firmare l’accordo con un premier israeliano uscente sapendo che il successivo potrebbe stracciarlo in un momento». In ambienti dell’intelligence però, la percezione è diversa. Tra timide aperture e repentini passi indietro, un occhio al partito islamico al potere a Gaza che ieri il ministro degli esteri Tzipi Livni a minacciato direttamente («se diventerò premier rovescerò il regime di Hamas») e l’altro all’Iran, Israele tasta il terreno consapevole di avere una chance. «La pace conviene», ammette Yigal Kipnis, leader del Golan on the Way to Peace, il Golan sulla via della pace, un piccolo gruppo di refusenik disposti a rinunciare all’investimento di una vita per la normalizzazione dei rapporti con la Siria. Dal ”78 vive in un moshav, un comunità agricola di Maale Gamla, coltivando mele rosse come quelle di Biancaneve. Tredici anni fa però, si è persuaso che il benessere di 30 mila abitanti del Golan non valesse la sicurezza del Paese: « ora di andar via». L’attivismo di Olmert consegna un’eredità impegnativa al successore, primo premier israeliano dell’era Obama e del rinnovato softpower americano. Bibi Netanyahu avrebbe accettato la linea internazionale. Ehud Barak era propenso a cedere altra terra in cambio del cento per cento del lago di Tiberiade, principale bacino idrico d’Israele sebbene agli sgoccioli. Lo stesso Barak che oggi, ministro della difesa, ascolta i tamburi di pace ma avverte che «in caso di guerra con la Siria Israele è sufficientemente forte per rovesciare il regime di Assad». Ma anche tra i suoi c’è chi lascia intendere che non sarà necessario. Francesca Paci