Claudio Gallo, La Stampa 22/12/2008, pagina 14, 22 dicembre 2008
La Stampa, lunedì 22 dicembre 2008 Una legge crudele nasconde talvolta le residue tracce della bellezza del mondo dietro l’arretratezza economica o l’isolamento politico
La Stampa, lunedì 22 dicembre 2008 Una legge crudele nasconde talvolta le residue tracce della bellezza del mondo dietro l’arretratezza economica o l’isolamento politico. Ma è un attimo, orde di esteti scoprono gli stessi ultimi paradisi, vecchie case diventano maison de charme e il gioco ricomincia sempre più difficile. Sarebbe ridicolo mettere la Siria tra i luoghi da scoprire: Aleppo era abitata nel 5000 a. C. e quando i siriani, molti secoli dopo, divennero cittadini dell’impero romano, avevano già visto arrivare e poi sparire fenici, egiziani, assiri, sumeri, babilonesi, ittiti, persiani e i macedoni di Alessandro. Oggi, però, l’incerto onore di essere annoverata tra le capitali dell’Asse del Male (sebbene la meno maligna) secondo l’antica dottrina Bush, la pace mai siglata con Israele e gli inestricabili legami con il mattatoio libanese addensano attorno a Damasco un gigantesco luogo comune che come un cane ringhioso tiene alla larga i viaggiatori. quasi impossibile, al ritorno dalla Siria, non sentirsi chiedere: «Ma non era pericoloso?». Molto più pericoloso è camminare di notte nel centro storico di una metropoli italiana che per i vicoli della vecchia Damasco, grande tre volte Milano. Gli stranieri che passano poche settimane nel Paese avvertono distrattamente il ferreo controllo politico del regime baathista ma apprezzano la relativa assenza di microcriminalità. Impossibile in Siria sfuggire alla storia. Come una vecchia casa araba, il Paese è disposto a strati: le stanze appena sotto il tetto sono state ricostruite nello stile più moderno, inventato dal secolo delle lotte per l’indipendenza, delle utopie generose e sanguinarie. La parte di mezzo ha linee sinuose e potenti nel gusto ottomano, poi spuntano le mura bizantine e giù in cantina si aprono profondi gli archi romani e i lucernari. Sotto ancora, pietre annerite, accatastate da qualcuno sperduto nel passato assiro o fenicio. La parte moderna della capitale è gradevole ma anonima, potrebbe essere Ankara, con i grattacieli, il palazzo dell’Opera e i viali larghi che si arrampicano sulla schiena del Qasyun, la montagna sopra i mille metri dove nella torrida estate la gente sciama di notte a prendere la brezza fresca e vedere le luci senza fine della città. Fuori dei soliti giri, incastonata di fianco al Qasyun, non lontana dall’ospedale italiano, c’è la moschea dov’è sepolto, in un’ampia cabina di vetro, Muhyiddin Ibn Arabi, il grande filosofo sufi del XII secolo che viveva a Damasco. «Da sempre, quando qualcuno della mia famiglia ha un problema - racconta Yasser al Jabi, urbanista dell’Università di Damasco - veniamo qui e silenziosamente chiediamo aiuto a Shaikh al Akbar, il Grande Maestro. Di solito funziona». Vista dal Qasyun, la vecchia Damasco con le sue mura è un bastimento in mezzo a un mare di cemento, sfrecciato da scintillanti pesci di metallo che gemono e sbuffano ossido di carbonio. Al posto dell’albero maestro, il minareto della grande moschea degli Ommayyadi. Per arrivarci si può passare da Bab Tuma, la porta di Tommaso, oppure entrare nella Via Recta, la strada greco-romana che ne percorre l’asse. Entrando dalla parte del quartiere cristiano si trova il muro da cui in una cesta calarono San Paolo per sottrarlo agli ebrei ostili alla sua predicazione. Poco più in là c’è la chiesa di Anania, il vescovo che battezzò l’apostolo dei Gentili. Tra i Paesi del Medio Oriente che videro la prima predicazione del Vangelo e ora assistono al declino delle comunità cristiane, spesso ostacolate se non perseguitate, la Siria è il più ospitale: croci di tutte le confessioni, cattoliche, ortodosse e armene, si stagliano nello stesso cielo dei minareti sunniti e sciiti. La bellezza della vecchia Damasco si nasconde nei cortili delle antiche casa arabe. Poche conservano sontuosi frontespizi. Come a Istanbul, le meravigliose facciate di legno con i bovindi arabescati sono sparite, crollate o bruciate. Restano gli interni che si aprono umbratili: un labirinto di cortili, col gorgoglio dell’acqua che zampilla dalle fontane, i balconi fioriti, le nicchie e il tetto aperto da cui entra prepotente la luce del cielo. Nel dopoguerra i vecchi proprietari si sono quasi tutti spostati nei palazzi moderni della parte nuova della città, abbandonando le vecchie case a un rapido declino. Oggi quelle meglio conservate sono diventate alberghi, come il Beit Zaman che si affaccia sulla via Recta. Marwan Arcouche, famiglia cristiana, francese impeccabile, per anni direttore del Méridien, ha da poco aperto il suo nuovo hotel. Il vecchio marmo e i tavolini di ottone risplendono come una volta, il rumore dei passi torna a riempire il silenzio ovatto dei cortili. «E’ stata una scommessa - dice monsieur Arcouche -. L’ambasciata francese ci ha mandato i primi ospiti. La gente è incantata da queste vecchie pietre». Soltanto Aleppo prova a rivaleggiare con Damasco: la muscolosa cittadella fortificata, l’immenso suk coperto dove si compra il vero sapone fatto con l’olio d’oliva e le foglie di alloro (ma il più pregiato è quello all’olio di sesamo), i pistacchi verdi e i datteri. Al leggendario Hotel Baron, oggi parecchio scalcinato, dietro la sfarzosa fortezza postmoderna dello Sheraton, Lawrence d’Arabia lasciò un conto da pagare che è ancora lì, incartapecorito dentro una vetrina. Ad Aleppo, oltre la ferrovia, c’è la chiesa di San Giorgio, dove gli ortodossi fuggiti da Urfa (l’antica Edessa) ai tempi di Ataturk conservano i canti sacri più antichi della cristianità. Lasciando Aleppo in direzione dell’Iraq, si prende la via delle antiche carovane dirette in Persia e s’incontra il più importante gioiello archeologico siriano: Palmyra. All’inizio del primo secolo, la città della regina Zenobia, morta nel 275 a Tivoli nell’agiato esilio romano, era una possente città mercantile lungo le rotte carovaniere dall’Oriente al Mediterraneo. Eclettica, a metà tra il mondo iranico e quello greco, attirava intorno ai negozi del suo superbo colonnato una folla brulicante di mercanti e viaggiatori. Saccheggiata da Tamerlano, nel 1600 era ridotta a una guarnigione ottomana. Archeologi francesi, italiani e americani lavorano dal secolo scorso al suo recupero. indimenticabile, al tramonto, lo spettacolo del sole che cola come miele sull’arenaria rosa delle colonne ioniche del tempio di Baal Shamin. Aphamea, Bosra, i castelli crociati, la basilica di San Simeone lo Stilita, le città bizantine fantasma: la Siria è ricca di straordinarie rovine ma nessuna è paragonabile a Palmyra. Quando i fratelli Tharaud la videro nel 1923, asini e cammelli pascolavano ancora tra mucchi di pietre. Fu un beduino che spiegò loro la sorte di quelle struggenti rovine: «Sono stati i Jinn, gli spiriti: loro hanno costruito la città e loro l’hanno distrutta». Così è il destino della Siria, dove le civiltà muoiono una addosso all’altra e gli invasori di oggi diventano i profughi di domani, fino ai nostri giorni tormentati, in cui la storia sembra essersi smarrita. Claudio Gallo