Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  dicembre 22 Lunedì calendario

La Stampa, lunedì 22 dicembre 2008 Il colosso americano e il drago cinese, sui quali i maggiori esperti tendono a focalizzare l’attenzione in questa disastrosa fine d’anno, sarebbero secondo loro i due bersagli più esposti ai virus della grande crisi innescata dai crolli finanziari del 2008

La Stampa, lunedì 22 dicembre 2008 Il colosso americano e il drago cinese, sui quali i maggiori esperti tendono a focalizzare l’attenzione in questa disastrosa fine d’anno, sarebbero secondo loro i due bersagli più esposti ai virus della grande crisi innescata dai crolli finanziari del 2008. I termini di paragone, le prognosi analitiche, nonché le drastiche ipotesi terapeutiche sono allarmanti e inquietanti. Quale dei due giganti riuscirà a resistere meglio ai contraccolpi e ad affrontare con più inventiva il fosco futuro? Fino a che punto la vitalità produttiva dell’America si sia inabissata, dopo il secondo venerdì nero della sua storia, si è ben visto nel momento in cui il presidente Bush, contrariando il Congresso, ha deciso di salvare dalla bancarotta totale la General Motors e la Chrysler con un’iniezione straordinaria di 17 miliardi e 400 milioni di dollari. Di fatto si tratta di un prestito ponte, una flebo di sopravvivenza, concessa in extremis e a tempo breve ai due maggiori simboli storici e d’immagine della potenza industriale americana. I due dinosauri dell’auto, che danno lavoro a milioni di persone, otterranno così il volatile carburante di una bancarotta protetta; se entro tre mesi non riusciranno a rimettersi in piedi, riducendo le loro dimensioni e accettando schemi contrattuali di tipo giapponese, dovranno restituire i soldi del prestito e trapassare dal coma assistito alla morte secca. Toccherà all’amministrazione Obama il compito, parimenti ingrato, di certificare il decesso o di puntellare la fragile convalescenza dei due grandi malati di Detroit il cui management, fallimentare, non è stato mai particolarmente vicino al cuore dei democratici. La crisi dell’auto non è che una delle punte più visibili, ancorché più impressionanti, di una generale situazione d’incertezza economica e disagio sociale che, nei prossimi anni, in America e di riflesso in Occidente potrebbe aggravarsi con ricadute incontrollabili. Come si presentano, al confronto, le economie emergenti dell’Asia? Qui il discorso comparativo, più che sui chiaroscuri dell’India, deve in particolare incentrarsi sulle formidabili vampate e zampate del drago cinese. Almeno fino al costosissimo spettacolo delle Olimpiadi d’agosto, che fu anche una dimostrazione tangibile di miracolo economico, la Cina neocapitalista, seconda potenza militare del pianeta, pareva avviata alla conquista anche del secondo posto nella gerarchia dei mercati. Appariva come l’astro guida della globalizzazione confuciana. Non a caso, proprio in questi giorni di crisi, dopo lo sfarzo e lo sforzo delle Olimpiadi il partito comunista ha voluto celebrare alla grande, con esibizioni artistiche, concerti, discorsi fluviali, il trentesimo anniversario delle «quattro modernizzazioni»: la famosissima svolta pragmatica e riformatrice con cui nel 1978 Deng Xiaoping liberò la Cina dal maoismo e aprì al mondo e al benessere un quinto recluso e misero dell’umanità. Oggi l’economia cinese è quasi nove volte più cospicua di quella del 1978. Il reddito medio pro capite è cresciuto di otto volte. Migliaia di «comuni del popolo», di orwelliana matrice maoista, sono state smantellate e centinaia di milioni di contadini hanno ottenuto in concessione demaniale, con contratti di lungo periodo, la terra degli avi. Al tempo stesso 150 milioni di cinesi si sono trasferiti dalla campagna nelle prosperose città del Pacifico e già nel 2001, secondo stime attendibili, 400 milioni sono usciti dalla povertà. Di materia celebrativa, degna di paragone ai massimi livelli dopo tre decenni di riforme e di successi, ce n’era e ce n’è in verità ancora tanta. Basterà ricordare un eccezionale dato di confronto e di compenetrazione finanziaria con l’America. Le enormi eccedenze di bilancio della Cina, rispetto al massiccio deficit di Washington, sono tali da far dire al politologo Will Hutton che la Cina è il sostegno su cui si appoggia l’edificio della finanza americana: «Gli Usa non potrebbero sostenere un deficit di 800 miliardi l’anno se l’acquisto di obbligazioni e buoni del Tesoro americano da parte cinese non fosse così ingente». Le ombre comunque non mancano. Proprio l’intreccio di forza e di debolezza è il contrassegno, tipico della Cina nel XXI secolo, che spinge gli osservatori obiettivi come Hutton a definirla «drago dai piedi d’argilla». Nonostante le feste celebranti le «quattro modernizzazioni» (cui manca ancora la quinta, democratica), i pericoli sempre più insidiosi e ravvicinati della crisi finanziaria, ormai intercontinentale, non potevano non occupare la mente dei dirigenti del partito unico già impegnati, d’altronde, a contenerne i primi guasti. Il colpo inferto dalla crisi alle esportazioni cinesi, circa il 70% del Pil, è rimbalzato su migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura della più impressionante trasformazione economica della storia. Esse hanno dovuto ridurre l’enorme produzione per l’estero incrementando, con i licenziamenti, una disoccupazione che già ai tempi aurei del boom (10% di crescita l’anno) saliva a 170 milioni di lavoratori privi di protezione sindacale. La Banca Mondiale teme che la crescita per il 2009 potrà scendere al 7,5%: livello paventato dai superstiziosi controllori politici delle statistiche perché, sotto l’8%, potrebbe ingrossare ancor più l’esercito dei disoccupati, degli scontenti, dei derelitti arrabbiati, provocando frustrazioni e pregiudicando la pace sociale. Scioperi, jacqueries contadine, proteste di piazza contro dirigenti regionali corrotti e arricchiti, frequenti fin dal 1994, potrebbero farsi più selvaggi nel 2009 che pure alla Cina promette non pochi disagi e difficoltà. Frattanto molte industrie, statali e private, cercano di sostituire il prosciugamento dei mercati esteri con il mercato interno, e le opzioni merceologiche si vanno adattando nella scelta e nella qualità alla domanda dei consumatori indigeni. Se, dopo il calo delle esportazioni, questa valvola di sfogo e di compensazione funzionerà in un mercato ad alto potenziale demografico, il più vasto del mondo, la Cina potrà contare su una cintura di sicurezza anticrisi di cui altri Paesi, in Occidente e in Asia, sono sprovvisti. Ma, da un altro lato, la cura di un gigantesco mercato interno rischia di trovare, proprio nel protezionismo, il nemico di quella politica d’apertura al mondo e alla globalizzazione su cui l’esplosiva Cina post-maoista ha costruito, in un crescente divario tra ricchi e poveri, tutte le sue fortune e il suo sviluppo nella modernità. Il protezionismo degenera spesso e fatalmente nel nazionalismo, nella chiusura, nell’ostilità xenofoba. La Grande Muraglia, che circonda Pechino, potrebbe acquistare al di là del valore archeologico un rinnovato e negativo significato ideologico. La recessione, con le sue ripercussioni anche sulle aspettative democratiche della Cina, porterà facilmente l’acqua al molino delle fazioni più reazionarie e statolatriche del partito comunista. Fino a ieri esse si vantavano di aver favorito, controllando gli eccessi della libertà economica, un innesto ordinato di stimoli capitalisti nel corpo «socialista» del Paese. Domani potrebbero vantarsi di aver rafforzato le virtù endogene del mercato interno all’ombra di un sano nazionalismo. Si apre così davanti ai rischi d’arresto della crescita, con l’instabilità sociale e politica che ciò comporta, un ulteriore terreno di dissidio e di scontro tra conservatori e innovatori all’interno di un partito bicefalo e più che mai incerto sulla via da imboccare. Sarà insomma da vedere se i riformisti, che hanno ancora molte frecce al loro arco, saranno in grado di dare alla Cina nel vortice della crisi un’uscita di sicurezza tale da stupire un po’ tutti: gli americani, gli indiani, i giapponesi, gli europei e, in particolare, i colleghi veterocomunisti del loro stesso partito. Mai dimenticare che Pechino resta sempre la capitale più imprevedibile del pianeta. Enzo Bettiza