Paolo Conti-Giovanni Russo, Corriere della Sera 22/12/2008, 22 dicembre 2008
POLEMICHE SULLA DOLCE VITA PROVOCATE DA UN GIUDIZIO DI ARBASINO
PAOLO CONTI SUL CORRIERE DELLA SERA DEL 21/12/2008
«Flaiano conosceva meglio di tutti l’ambiente intellettuale di Roma... Ma da dove sono venuti quegli intellettuali che ne "La dolce vita" dicono quelle stupidaggini tremende?». La stroncatura di Alberto Arbasino arriva quasi cinquant’anni dopo il primo ciak di Federico Fellini, che risale al 16 marzo 1959 a Cinecittà. Arbasino era intorno ai trent’anni, a quei tempi. Aveva alle spalle Le piccole vacanze ed era già una firma di punta de «Il Mondo».
Lui, in via Veneto, era di casa e apparteneva alla compagnia di giro notturna che ben prima del film di Fellini si spostava nel triangolo compreso tra Rosati, il Café de Paris e Doney: Mario Pannunzio, Sandro de Feo, Ercole Patti, Vincenzo Cardarelli, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati spesso in bombetta e cappotto nero, Vincenzo Talarico, un giovane Eugenio Scalfari, Mino Maccari, Pier Paolo Pasolini, Laura Betti, l’ex re Farouk d’Egitto. E poi Alberto Moravia, talvolta Curzio Malaparte con un alano e diverse belle donne, Elio Vittorini di passaggio per Roma, Vittorio Gassman con la moglie Nora Ricci. Ovviamente Alberto Arbasino nel gruppo dei più giovani con Giulia Massari. Poi i divi americani rincorsi dai paparazzi fin quasi dentro l’Hotel Excelsior, le loro lotte per evitare i flash. E sono alcuni nomi, almeno stando alla sterminata memoria di Giovanni Russo che ne ha scritto più volte su queste pagine.
Quell’irripetibile spaccato mondan-culturale ispirò a Federico Fellini e allo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano l’idea per «La dolce vita». E adesso, a mezzo secolo di distanza e con uno sguardo distaccato degno di un postero, Arbasino attacca: «Flaiano sapeva benissimo cosa fosse il salotto Bellonci, chi frequentava la casa di Emilio e Leonetta Cecchi. C’erano signore intellettuali, Paola Masino, i coniugi Graziadei, i D’Avack, tutt’altro tipo di intellettuali rispetto al film, cioè grandi avvocati e signore laureate... Non corrispondono a quei personaggi così ridicoli, nella loro tragicità». Arbasino cita come esempio massimo di «ridicolaggine» il personaggio di Steiner, interpretato da Alain Cuny, il raffinato intellettuale ricco e affermato che si suicida dopo aver ucciso i figli: «Anche lui si ammazza dicendo solennemente delle stupidaggini».
Arbasino stronca in viva voce, apparendo nella sezione delle interviste del Dvd dell’Istituto Luce «Città aperta-Vita culturale a Roma dal ’44 al ’68», uscito due giorni fa e firmato come autore e regista da Gianni Borgna (ex assessore alla Cultura a Roma per 13 anni nelle giunte Rutelli e Veltroni, oggi presidente della fondazione Musica per Roma dell’Auditorium) grazie a un’idea dello scrittore Antonio Debenedetti. Arbasino torna ai tempi più belli: «Io andavo al "Mondo" poi a mangiare in una trattoria di via Frattina che non c’è più o da "Cesaretto" in via della Croce. Poi al cinema, o al teatro. Infine di nuovo a mangiare. Si finiva a via Veneto... orari spagnoli». E qui il primo affondo: «Il film ha segnato la fine della vera dolce vita, che non si chiamava così perché il titolo è di Flaiano. Dopo il film arrivarono frotte di turisti, e addio. Una vera tragedia. Lì nacque un’altra battuta di Flaiano: "Vedi, quelli? Credono di essere noi"». Ma non finisce qui. Arbasino (vestito d’azzurro dalla testa ai piedi, in versione autunnale, l’intervista è girata al bar dell’Auditorium di Renzo Piano) tira un sospiro di sollievo: «C’è stata vera saggezza. Perché nessuno di noi veri avventori della dolce vita partecipò al film. Fellini era un amico, veniva a sedersi spesso ai nostri tavoli, conosceva tutti benissimo, arrivava in compagnia di Guidarino Guidi. Al tempo delle riprese ci chiese spesso di partecipare interpretando noi stessi. Una sera ci invitò a vedere via Veneto ricostruita a Cinecittà da Piero Gherardi».
Qui il giudizio di Arbasino è positivo: «Era tutto molto accurato, un Doney perfetto con un po’ di Excelsior dietro... Visto che avevamo approvato tutto, Federico tornò all’attacco: "non prendereste parte a qualche ripresa, così..." E noi tutti insieme "no, no, no". Guidarino Guidi insisteva molto. E saggiamente rimanemmo fuori. Era facile prevedere che in seguito si sarebbe stati "sbertulati". Un termine dell’epoca per dire "presi in giro" ». Il più bel ricordo legato al film, secondo Arbasino, è la prima proiezione di prova: «Una copia di montaggio non ancora doppiata, ogni attore parlava nella sua lingua, sul sottofondo c’era la voce di Fellini che dava indicazioni, invece della musica di Nino Rota c’era in modo ossessivo
L’opera da tre soldi di Kurt Weill che aiutava a fare atmosfera durante le riprese. Affascinantissimo ». Sul film montato e finito nemmeno una parola. Solo il durissimo commento sulle «stupidaggini » dette da quegli intellettuali mal scopiazzati, secondo Arbasino, dagli originali. Lui stesso compreso.
GIOVANNI RUSSO SUL CORRIERE DELLA SERA DEL 22/12/2008
Alberto Arbasino ha detto dopo cinquant’anni quanto molti di noi pensammo vedendo l’anteprima romana de «La dolce vita»: non ci riconoscemmo in quei personaggi e nel loro modo di comportarsi e in quello che dicevano. Avevamo visto nascere il film mentre bivaccavamo a via Veneto, con Fellini e Flaiano che si appostavano ai tavolini del Caffè Doney o pattugliavano a piedi o in Seicento la strada fino a Porta Pinciana. Stavamo a chiacchierare fino alle ore piccole con Sandro De Feo, Ercole Patti e Vitaliano Brancati parlando di letteratura o di cinema, mentre Mario Pannunzio discuteva di politica con Franco Libonati e Saragat seguito dal fedelissimo avvocato Lupis, detto per il suo aspetto l’orribile uomo delle nevi, e talvolta Ugo La Malfa. Ogni tanto, Fellini e Flaiano venivano a bere un bicchiere ai nostri tavoli e, come racconta Arbasino in un Dvd curato da Gianni Borgna (di cui ha scritto ieri sul Corriere
Paolo Conti), a fare l’invito a partecipare alle riprese del film. Non è esatto che nessuno lo raccolse: per esempio, Leonida Repaci accettò, ed è uno dei personaggi della festa in casa di Steiner, l’intellettuale suicida che, per manifestare la sua crisi esistenziale, si esprime con frasi banali come questa: «Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori dal tempo. Distaccati. Distaccati ». Tullio Pinelli, che insieme a Flaiano fu lo sceneggiatore del film, mi ha raccontato che per il personaggio si ispirò a Cesare Pavese che era stato suo amico e che egli aveva frequentato a Torino. Ma Pavese era molto lontano da Steiner. Anche questo dimostra che non c’è identificazione tra i personaggi reali e quelli inventati dagli autori de «La dolce vita».
Quando il film è uscito, proprio gli intellettuali amici di Flaiano e di Fellini lo accolsero con freddezza e lo criticarono con l’unica eccezione di Moravia e Pasolini. A loro non piacque soprattutto il personaggio di Steiner, e anche gli uomini di cinema, Rossellini in testa, come ricorda Tullio Kezich, ne parlavano malissimo. L’Osservatore Romano
poi pubblicò trenta attacchi consecutivi, tra cui un corsivo intitolato «Sconcia vita », senza contare gli attacchi dell’Msi che lo considerò «offesa palese alle virtù e alla probità della popolazione romana».
Parlando anni dopo di queste reazioni con Flaiano, egli mi confessò che persino a lui che lo aveva sceneggiato, il film non era piaciuto tutto, e pensai che fosse uno dei suoi paradossi. Però, nel carteggio pubblicato da Bompiani ho letto una lettera di Flaiano in cui scrive a Fellini che dopo molti anni aveva rivisto il film e ne era rimasto entusiasta. Arbasino quindi riflette oggi le reazioni che ebbero allora molti degli intellettuali che appartenevano al gruppo di scrittori e giornalisti e attori che trascorrevano le serate a via Veneto, serate che in realtà non erano affatto trasgressive perché consistevano nell’andare a cena quasi sempre in una piccola trattoria di via della Croce, Cesaretto. Poi dopo essere andati al cinema o a teatro, trascorrevamo le ore piccole a piazza del Popolo d’inverno, a via Veneto d’estate. In quelle serate, tutt’al più si inventavano soprannomi che sono diventati celebri, come «l’amaro gamba rotta» per Moravia, «il profeta del passato» per Pannunzio, «il vecchio tastamento» per il pittore Francesco Trombadori, la «picassata alla siciliana » per Guttuso.
A Fellini la realtà serviva come pretesto per un’invenzione artistica che non fotografava la realtà e che rispondeva anche alle sue curiosità, alla sua sensibilità per i problemi religiosi e che lo spingeva a deformare personaggi e fatti per darne una rappresentazione drammatica. Ecco perché aveva trovato anche molte difficoltà con i produttori. Per questo Arbasino ha torto, come allora gli intellettuali romani che storsero il naso e i famosi produttori De Laurentiis, Lombardi, Cristaldi, che fecero a gara a non produrre il film, finché Rizzoli non decise di finanziarlo. Fellini, con il suo talento, ne «La dolce vita» aveva creato una parabola che simboleggiava e rappresentava un disagio morale e sociale universalmente sentito, tanto è vero che il film ebbe un enorme successo e diventò un mito che ancora non tramonta. Via Veneto continua ad attirare turisti da tutto il mondo. vero che a molti sembrò una vera invasione, anzi, una «tragedia » come dice Arbasino. Ma non fu lì che nacque la battuta «credono di essere noi». Questa la disse lo scultore Mazzacurati in piazza del Popolo dove, con Flaiano accanto all’obelisco, guardavano gli avventori che si affollavano dall’altro Rosati che non frequentavano più.
Secondo Lina Wertmüller, il Comune di Roma a Fellini in via Veneto dovrebbe fare un monumento perché, più di qualsiasi pubblicità, è anche per merito de «La dolce vita» se arrivano qui centinaia di migliaia di turisti.
LETTERE PUBBLICATE DAL CORRIERE DELLA SERIA IL 27/12/2008
Arbasino e «La dolce vita» / 1
Non posso trattenermi dallo scrivere a proposito del pezzo pubblicato dal Corriere del 21 dicembre, dove Alberto Arbasino difende la corporazione degli intellettuali che sarebbe stata mistificata da Fellini ne «La dolce vita». Mi ha fatto ricordare che all’indomani della prima del film i nobili romani protestarono perché si sentivano vilipesi da come erano stati rappresentati. Voglio, infine, citare un esempio storico: quando Eisenstein presentò in anteprima «Ottobre» al comitato centrale bolscevico, i burocrati del partito insorsero perché, dicevano, i fatti non si erano svolti così. Loro c’erano quando fu preso il Palazzo d’inverno e potevano assicurare che non era andata come diceva il regista. Si preparava la dogmatica del realismo socialista fondata sulla concezione dell’arte come riflesso.
Vittorio Boarini
direttore della Fondazione Federico Fellini fondazione@federicofellini.it
Arbasino e la «dolce vita» / 2
Mi hanno molto stupito i contenuti dell’articolo di Paolo Conti che riprende l’intervista rilasciata da Arbasino nel dvd «Città aperta - Vita culturale a Roma dal 1944 al 1968»: a mio giudizio è infatti sin troppo evidente che, come in tutti i suoi film, anche ne «La dolce vita» Fellini prende a pretesto quanti popolano un contesto da lui frequentato per trasfigurare queste creature e farle muovere in una dimensione che nulla ha a che vedere con quella da cui sono state estrapolate. un modo di procedere tipico del Fellini autore, che tutto credo si sarebbe sognato realizzando quel film meno che qualcuno potesse prenderlo come punto di riferimento, mezzo secolo dopo, per una discussione sulla vita culturale a Roma a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Che, ovviamente, è tutt’altra cosa: deviante è mettere in campo l’opera di un autore nelle sue realizzazioni «inconsciamente» avulso e lontano da una realtà che fa da sfondo al mondo da lui reinventato, sempre in bilico fra il fantastico e il surreale, senza alcuna pretesa di incidere su un «sociale» di fatto a lui ignoto.
Giuseppe Barbanti, Venezia-Mestre