Francesco Giavazzi, Corriere della Sera 22/12/2008, 22 dicembre 2008
Nel tentativo di calmare le acque e dissolvere l’effetto delle critiche rivolte dal ministro dell’Economia al Governatore della Banca d’Italia, Silvio Berlusconi ha detto che si tratta semplicemente di una divergenza di opinioni
Nel tentativo di calmare le acque e dissolvere l’effetto delle critiche rivolte dal ministro dell’Economia al Governatore della Banca d’Italia, Silvio Berlusconi ha detto che si tratta semplicemente di una divergenza di opinioni. Non basta. Il governo ha appena deciso di destinare una quantità ingente di fondi pubblici alla ricapitalizzazione delle banche: i cittadini non possono avere dubbi sul fatto che i loro denari siano ben spesi, cioè che verranno impiegati per mantenere aperto il credito a famiglie e imprese. Sulle banche vigila la Banca d’Italia: prima di proiettare ombre su questa istituzione è bene pensarci due volte. I cittadini vogliono anche sapere che cosa pensa Berlusconi del lavoro di Mario Draghi nella sua veste di presidente del Financial stability forum (Fsf), principale oggetto delle critiche del ministro (critiche curiose dato che i suoi funzionari partecipano da anni ai lavori del Forum). Il G20 di Washington cui Berlusconi prese parte, non solo approvò il lavoro dell’Fsf, ma gli affidò anche il compito di ridisegnare le regole del sistema finanziario internazionale. Se il presidente del Consiglio condividesse l’opinione del suo ministro («E’ demenziale prendere lezioni da chi non ha capito nulla e se ha capito ha sbagliato») avrebbe dovuto chiedere al G20 di sollevare l’Fsf, o almeno il suo presidente, dalle responsabilità loro assegnate. Il ministro dell’Economia ha evidentemente il diritto di esprimere il suo parere, ma l’opinione che l’Fsf non avesse capito nulla è contraddetta dai fatti. I documenti via via inviati dall’Fsf ai ministri delle Finanze del G7, già nel 2001 individuavano molti degli aspetti che si sono poi rivelati determinanti nella crisi: la possibilità che la liquidità svanisse più rapidamente che in passato; la fragilità del trasferimento di rischio da un’istituzione all’altra; il fatto che alcuni strumenti finanziari non fossero mai stati testati in condizioni di elevata volatilità, quando avrebbero potuto dar luogo ad eccessive concentrazioni di rischio ed erodere all’improvviso il capitale delle banche; i pericoli che nascono quando le banche negoziano titoli in proprio. Concludeva l’Fsf: «Le autorità dovrebbero affrontare queste situazioni ». Nel 2001 Tremonti cominciava la sua prima esperienza come ministro dell’Economia: non può dire di non essere stato avvertito. L’Fsf non è un regolatore, non ha poteri di vigilanza, solo di proposta. Il ministro dell’Economia invece, nella sua veste di presidente del Cicr, definisce le norme preposte alla difesa del risparmio e può chiedere conto in ogni momento ai regolatori del loro operato (lo fece proprio nel 2001 per i bond Parmalat). Se allora non ritenne di dar seguito alle preoccupazioni dell’Fsf è perché, nonostante fossero gravi e circostanziate, evidentemente non pensava che rappresentassero un reale pericolo. Infine c’è Goldman Sachs. Il ministro dell’Economia allude spesso alla passata esperienza del Governatore che fu un alto dirigente di quella banca. Poiché né Tremonti né alcun altro ha mai messo in dubbio la trasparenza di Draghi, il problema è se aver lavorato nei mercati aiuti quando si devono riscriverne le regole e vigilarli. Io penso che un’esperienza diretta nei mercati aiuti, perché controllare ciò che si capisce è più facile (così come la sua passata esperienza di imprenditore ha spesso aiutato il Berlusconi primo ministro). Alla luce della gravità della crisi ci saremmo aspettati che Tremonti, come gli suggeriva ieri Angelo De Mattia, su Il Riformista, si preoccupasse piuttosto di come rendere più incisivi i provvedimenti che ha adottato.