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 2008  dicembre 21 Domenica calendario

EMANUELE GIORDANA PER DIARIO 11 DICEMBRE

Salvate la croce rossa. In Italia è moribonda, soffocata dalla burocrazia e piena di anomalie. Lo statuto internazionale parla chiaro: la Cr è un ente autonomo e neutrale. Al contraria, quella italiana continua a dipendere (anche economicamente) dai governi e a ospitare al suo interno una sezione militare. I volontari civili sono in rivolta. E scrivono a Napolitano

Questa volta non è questione di «sparare sulla Croce Rossa». Quella italiana, la Cri, non sta affatto bene già per conto suo. Sta anzi malissimo. In un certo senso è mo¬ribonda. Commissariata per l’ennesima volta l’11 novem¬bre scorso, messa cioè sotto tutela da un inviato speciale del governo apparentemente per questioni di bilancio, sembra versare in una sorta di coma profondo. Un co¬ma strettamente connesso a una storia pasticciata che gi¬ra ormai da decenni attorno alla sua diversità rispetto alla stragrande maggioranza delle consorelle che aderiscono alla Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa, con sede a Ginevra: la stretta dipendenza dal governo. Una contraddizione evidente con almeno tre dei sette «comandamenti» dell’istituzione fondata nel 1800 dal filantropo svizzero Henry Dunant e che oggi raccoglie 186 società nazionali: neutralità, imparzialità e, soprattutto, indipendenza. Ma c’è di più. L’incapacità di produrre un nuovo statuto, cosa cui la Cri è stata recentemente obbligata per la terza volta da Ginevra al fine di correggere l’«anomalia italiana», sta facendo rischiare l’implosione. Originata dall’esplosione della rabbia dei suoi 250 mila aderenti, sparsi lungo tutto lo stivale: i volontari, le vere «colonne» della Croce rossa italiana, non ne possono più di governo, commissari e di una struttura burocratica imponente che, in un’organizzazione a carattere volontario, conta circa cinquemila dipendenti pubblici. Questa situazione è causa del perenne buco di bilancio, dovuto al fatto che lo Stato versa i 180 milioni di euro nelle casse della Croce rossa con solenne ritardo. Un ritardo che spesso tocca ai volontari ripianare... con le donazioni.
Quando il corpo fluido dell’ente fondato nel 1864 ha capito che la riscrittura dello statuto non avrebbe fatto uscire la Cri dalle secche della dipendenza dal governo e dalle pastoie della burocrazia statale - e che ormai la presidenza del Consiglio era orientata a nominare un nuovo commissario nella figura del dottor Francesco Rocca - il forum interno di discussione sul sito della Cri è diventato rovente. E la rabbia si è tramutata, dopo settimane di polemiche e mugugni, in una lettera aperta a Giorgio Napolitano che sarà resa pubblica nei prossimi giorni e di cui Diario è in grado di anticipare i contenuti.
Con una prima tornata di firme «pesanti», dallo storico Angelo Del Boca al docente di aiuto umanitario Gianni Rufini, dal giornalista di Repubblica Guido Rampoldi (che raccontò l’epopea dell’ex commissario Maurizio Scelli in Iraq) al presidente della Federazione rom e sinti Nazzareno Guarnirei, la lettera non spreca troppe parole. Denunciando la «grave e reiterata negazione della sua indipendenza», chiede al presidente che la Cri «venga integralmente e definitivamente separata dallo Stato italiano, consentendo così la costituzione di una Croce rossa- Associazione di Volontariato che possa agire, finalmente, in maniera efficiente e nel pieno ed incondizionato rispetto dei principi fondamentali di Neutralità ed Indipendenza come previsto dal Movimento Internazionale di Croce Rossa».
Difficile dire cosa abbia reso colma la misura, al punto che qualcuno già paventa una possibile «scissione» con conseguente lancio di una «nuova» Cri davvero indipendente. La madre di tutte le complicazioni ha una storia antica che passa da diverse bizzarrie per un ente civile e indipendente per statuto: che incorpora per esempio una sezione militare, un’anomalia vissuta con fatica dai volontari civili, la stragrande maggioranza. Ma quel che rende indigesto il caso italiano è che la Cri è ormai una sorta di braccio «umanitario» dello Stato, anzi del governo. Tanto che una battuta ricorrente racconta come il presidente (eletto dai volontari, fino a ieri Massimo Barra) non presieda nulla mentre chi decide tutto è il direttore generale (attualmente Andrea Des Dorides) o il commissario straordinario. Imposti dal governo.
La pietra dello scandalo però arriva con la guerra in Iraq, quando il commissario straordinario di turno è il brillante avvocato Maurizio Scelli: un’ascesa meteorica che passa dalla gestione di parte del Giubileo vaticano, una corsa elettorale in Forza Italia andata buca e un traguardo, coi buoni auspici di Gianni Letta, al vertice della Cri. lì che la Croce rossa italiana passa il punto di non ritorno.
Scelli accetta che l’ospedale da campo che la Cri monterà a Baghdad, subito dopo la caduta di Saddam, sia scortato dai carabinieri. Apriti cielo! A Ginevra non credono ai propri occhi e, pur rispettando la rigida etichetta che impone di lavare i panni sporchi in famiglia, Jakob Kellenberger prende carta e penna e scrive alla Farnesina. Il presidente del Comitato internazionale (che rappresenta sia la Federazione, o Ifrc, che agisce in caso di disastri naturali, sia l’Icrc, il Comitato che interviene durante i conflitti) invita l’Italia a non tradire i sacri principi del movimento e chiede a Roma di ritirare i carabinieri dall’ospedale. Ne nasce un caso diplomatico, ma il governo Berlusconi fa orecchie da mercante. Scelli pure. E così facendo dà una mano al ministro della Difesa Antonio Martino che, anche grazie al connubio carabinieri-ospedale, fa passare la missione irachena «Antica Babilonia» come «un’operazione di pace».
Ma Scelli fa di più: diventa una sorta di mediatore semiufficiale nei casi di sequestro che avvengono in Iraq, senza che si capisca se tratta per Ginevra o per Roma. Il malumore è sempre più sensibile fino a che, sia per la vicenda di Enzo Baldoni (che in Iraq morirà proprio dopo un viaggio coi mezzi della Croce rossa) sia per quella di Giuliana Sgrena, l’avvocato di Sulmona verrà elegantemente silurato. Ma ormai i tempi sono cambiati e l’Italia dall’Iraq se ne va. Come se ne va Maurizio Scelli. L’arrivo di Massimo Barra, non più commissario ma presidente eletto, sembra segnare il ritorno della speranza. Barra parla apertamente di indipendenza e sembra deciso a evitare nuovi commissariamenti e a riscrivere lo statuto come si deve. Ripiana in parte il buco di bilancio. Ma alla fine anche lui viene messo all’angolo.
A Guardea, una cittadina di un paio di migliaia di abitanti tra Orte e Orvieto, sulle colline umbre, la sede della Croce rossa è di fianco al bar della via principale. Un piccolo locale dove, qui come altrove, vive il «corpo sano» di un ente morale istituzionalizzato con legge dello Stato nel 1882. Nel 1995 la Cri diventa un ente con personalità giuridica di diritto pubblico a tutti gli effetti e quindi sottoposto alla disciplina propria dell’apparato statale. l’indigesta anomalia italiana.
«Di anomalie», spiega L., un volontario che preferisce mantenere l’anonimato «ne sono sempre esistite tante e in tutte le Cr del mondo. La presenza dei militari, com’è ancora oggi in Italia e in Portogallo, è una di queste. Ma finché la cosa non solleva polemiche, Ginevra fa finta di niente. Il fatto è che l’Italia continua a creare problemi e l’Ifrc le ha già chiesto tre volte di cambiare statuto. Di stravolgere in sostanza questa identificazione tra un’associazione di volontariato e un ente pubblico, di fatto al servizio del governo».
L’ultima «anomalia» in ordine di tempo riguarda le «impronte» da prendere agli stranieri. Il governo non pensa niente di meglio che coinvolgere la Croce rossa che da braccio umanitario diventa una quinta colonna di polizia. La base si infuria. I vertici reagiscono tiepidamente anche se non dappertutto le cose vanno come vorrebbe il ministero dell’Interno. In alcuni casi ci si accontenta di fotografare i rom, in altri il rifiuto è netto, in altri ancora si fa melina. Il malessere è palese.
Ma se la base scalpita, il vertice frena. Una riforma della Croce rossa significherebbe rinunciare a 180 milioni di euro, il controllo su cinquemila dipendenti che dovrebbero essere riassorbiti altrove, uno smacco per i militari che utilizzano la Cri per fare carriera e, soprattutto, la necessità di fare come assai meglio si fa altrove: in India, per esempio, dove cinquecento dipendenti amministrano dodici milioni di volontari, uno ogni 24 mila. In Italia ce n’è uno ogni 30-40. In più i volontari si sentono inascoltati. Durante l’avventura irachena, non ci fu solo il governo italiano a chiedere una mano alla Croce rossa. Anche Aznar tentò il colpo. Ma i volontari dalla Cr spagnola risposero no grazie. In Italia non vennero nemmeno interpellati. E richiamarsi ai principi serve a poco anche perché nello statuto della Cri le singole parole sono state pesate con un «manuale Cencelli» molto particolare. A favore del governo.
I sette pilastri alla base di ogni statuto della Croce rossa regolano la vita del movimento internazionale. Tra questi sette comandamenti (umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontarietà, unitarietà, universalità), il quarto è fondamentale. Vediamo in dettaglio cosa dice lo statuto internazionale alla voce «indipendenza»: «Le società nazionali devono sempre conservare autonomia così che possano in ogni caso agire in accordo con i principi del Movimento.» Sul sito della Cri, alla stessa voce, si spiega invece che «le società nazionali devono però conservare un’autonomia che permetta di agire sempre secondo i principi della Croce rossa». Al posto di «devono sempre» c’è un più blando «devono però». Quando si dice la sintassi...
Nello statuto del 1995 la Cri alla voce «indipendenza» traduce così: «La Croce rossa svolge in forma indipendente e autonoma le proprie attività in aderenza ai suoi principi, è ausiliaria dei poteri pubblici nelle attività umanitarie ed è sottoposta solo alle leggi dello Stato ed alle norme internazionali che la riguardano». Nella bozza del nuovo statuto, quello in discussione, l’arzigogolo è ancora più evidente: anziché sottolineare maggiormente l’indipendenza della Cri, si parla di svolgere attivata «in forma indipendente» e in compenso si rimarca che la Cri è sottoposta alle leggi dello Stato che vengono prima delle norme internazionali che la riguardano. Superfluo dire che la bozza gode di scarsissimo consenso.
Per un po’ si è sperato che le cose sarebbero cambiate. E che i vertici avrebbero ascoltato la base che sul forum interno tentava la battaglia impossibile della riforma interna. Ma i boccaporti sono chiusi. E mentre i volontari cominciano a interrogarsi sul da farsi arriva il colpo di grazia. Massimo Barra viene «congedato» senza tante smancerie. Il 12 novembre, dopo che il commissariamento è diventato ufficiale, si sfoga con l’Adnkronos: « indicativo che ci siano stati nella Croce rossa per sette anni un presidente e per 18 anni dei commissari di governo. Ciò significa che i vari governi, di qualsiasi colore fossero, non erano tanto interessati al fatto che l’ente rappresentasse un organismo indipendente e sovranazionale, ma quasi una loro proprietà, un paraministero.»
Eppure l’ex presidente della Croce rossa italiana, pre-pensionato con un anno di anticipo, aveva fatto bene: «II 28 dicembre 2005, data del mio insediamento», dice, «ho ereditato un buco di cassa con la Bnl di 57.553.623,90 euro. Lascio al mio successore un buco di 18.888.705,57 euro. Questi numeri dimostrano ampiamente che sono stato artefice di un risanamento clamoroso». Ma al governo del risanamento importa poco. Il vero punto sono la dannata «indipendenza» e il dannato «statuto» sotto scrutinio.
Inutile dire che la nota del ministero del Lavoro dell’11 novembre che licenzia Barra e insedia l’ennesimo commissario straordinario, del risanamento non fa parola. Forse per rispetto della neutralità della Croce rossa.