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 2008  dicembre 21 Domenica calendario

Sono molte le ragioni che legittimano per l’anno che sta per chiudersi un posto di rilievo nella storia del nostro tempo, dalla crisi finanziaria che tiene il mondo con il cuore stretto nell’angoscia d’un futuro senza futuro al nero Obama che vince la corsa di Washington e apre le speranze d’un futuro invece possibile, e alle scarpate - anche - che uno sconosciuto «eroe» iracheno ha tentato contro Bush, ex-uomo più potente del mondo

Sono molte le ragioni che legittimano per l’anno che sta per chiudersi un posto di rilievo nella storia del nostro tempo, dalla crisi finanziaria che tiene il mondo con il cuore stretto nell’angoscia d’un futuro senza futuro al nero Obama che vince la corsa di Washington e apre le speranze d’un futuro invece possibile, e alle scarpate - anche - che uno sconosciuto «eroe» iracheno ha tentato contro Bush, ex-uomo più potente del mondo. Ma ce n’è una, di queste ragioni, che vale più di tutte le altre, anche le più rilevanti, perché segna un mutamento che chiude per sempre un tempo millenario e ne apre uno nuovo, ampiamente sconosciuto nelle potenzialità infinte dei suoi sviluppi ma comunque destinato a impiantare dentro un orizzonte diverso la storia dell’umanità: nel 2008, la popolazione delle città ha superato quella delle campagne, e la civiltà industriale celebra la propria vittoria paradossalmente quando la sua morte è stata annunciata dalla nuova egemonia che la Rete e l’informatica conquistano con il dominio della comunicazione elettronica e della società post-industriale. Dopo i lunghi millenni di vita della civiltà rurale, la civiltà industriale muore dunque di fatica e di asma in appena due secoli di vita; ma la nuova civiltà - che eredita dalla vecchia tutti i cascami d’un pianeta sempre più urbanizzato ma anche sempre più fragile, sempre più osteoporotico - si offre ora alla storia con una consapevolezza puramente virtuale, stritolata tra le necessità del vecchio mondo industriale e la fame di crescita e di sviluppo di quei quattro quinti d’umanità finora tagliati fuori dalla modernità e dalla vita. Il modello simbolico di questa mutazione epocale è Chongqing, vent’anni fa poco più di uno sperduto e anonimo villaggio dell’immenso Impero cinese, rintracciabile solo a fatica nelle più dettagliate mappe dell’Asia, e oggi, invece, con i suoi 32 milioni di abitanti, la più grande città del mondo, un agglomerato brulicante di vita e di frenesie commerciali nel quale si consuma il ritmo ossessionante della crescita inarrestabile della Cina nel tempo di meno d’una generazione. Eppure, Chongqing, questo mostro vorace d’ogni progetto possibile, è appena al 59.mo posto nella classifica della 60 città «globali» del pianeta, soltanto un posto più su dell’ultima, Kolkata (Calcutta, un tempo), e comunque lontanissima da tutti quei parametri - lo sviluppo degli affari, il capitale umano, la dimensione culturale, l’integrazione delle sue offerte al consumo pubblico, le relazioni politiche - che fanno d’una metropoli un centro vitale e ricco di futuro. La classifica l’ha definita una delle più autorevoli riviste americane, «Foreign Policy», con un lavoro integrato da A.T.Kearney e The Chicago Council on Gloobal Affaire, ed è una classifica che merita di essere letta con attenzione perché si avvale d’una serie di incroci statistici che offrono un’ampia attendibilità per la valutazione delle prospettive economiche e culturali d’ogni singola metropoli. La classifica finale vede al primo posto New York, al secondo Londra, al terzo Parigi, al quarto Tokyo e al quinto Hong Kong: che è come dire che in quel podio stanno assieme l’America, la vecchia Europa, ma anche - con ben due presenze - il signore del futuro, che è l’Asia (Pechino è soltanto dodicesima, ma è la prima tra le città dei paesi che sono sulla strada dello sviluppo, e le meraviglie di regime esposte agli occhi del pianeta con la festa delle Olimpiadi le garantiscono la consistenza d’una dinamica destinata a farle rimontare presto molti posti in classifica). Il quadro di riferimento mostra una impressionante esposizione di gigantesche distese metropolitane, città-mostro dove si ammassano, in ciascuna, più abitanti di molte nazioni intere: sono 19 le città che già hanno all’anagrafe più di 10 milioni di residenti, ed è significativo che delle altre 8 che le raggiungeranno nei prossimi anni soltanto Parigi appartenga al mondo ricco, mentre Chennai, Guangzhou, Jakarta, Kinshasa, Lagos, Lahore e Shenzen raccolgono la dinamica furiosa del mondo emergente nel nuovo ombelico del pianeta, l’Asia della Cina e dell’India, oppure crescono di fame e disperazione nell’Africa che arranca a tenere il ritmo di evoluzione del resto della Terra. E comunque nella impressionante classifica di queste mostruosità travolte spesso da irrisolvibili problemi di convivenza trovano spazio anche due «piccole» città italiane, ovviamente Roma e Milano, con Roma classificata 30.ma e Milano appena più giù, 39.ma. Roma ha la migliore performance nella dimensione dei parametri culturali (è 15.ma), e ha pure un piazzamento di qualità (22.ma) nella valutazione delle attività politiche; Milano mostra forti squilibri tra il posto (41.mo) della sua integrazione civica e delle sue risorse umane (42.mo) e invece il miglior apprezzamento per l’ecosistema economico (24.ma) e per le attività culturali (28.ma). La valutazione più interessante che si ricava dall’analisi di questi dati è che, sebbene New York trionfi con una media statistica imbattibile, non c’è una sola città-mostro che domini allo stesso modo in ciascuno dei parametri di riferimento. E se New York vince quanto a strutture economiche e finanziarie e a risorse umane, Londra è prima nella qualità dell’ambiente culturale, e Parigi - che pure ha una dotazione assoluta di patrimonio museale e artistico - è soltanto seconda in questo ambito ma vince nella qualità delle offerte di vita sociale che propone ai suoi abitanti e ai milioni di turisti che integrano la sua dimensione di metropoli in ascesa nel tempo nuovo. Stampa Articolo